Food mania, abbuffata indigesta: spese e debiti piegano le catene. Dai locali ‘fast’ alle vetrine fusion: è partita la stagione delle chiusure

6 giu 2025

Il 17 maggio sono scesi in piazza, davanti al Duomo, i lavoratori Mc Donald’s per chiedere “un contratto integrativo che riconosca dignità e diritti”
Milano – La moda dell’hamburger gourmet e quella del poke, con fast-food del tipico piatto hawaiano che hanno invaso le strade di Milano e poi delle province lombarde fino a saturare il mercato. I panini di qualità, i “fishbar“, i piatti importati dall’altra parte del globo o tipici della cucina di strada delle regioni italiane replicati su larga scala. Catene che aprono, fanno successo, e a volte finiscono nel vortice della crisi e dei debiti. Il “fast-food più irriverente del mondo” Burgez, messo in liquidazione giudiziale dal Tribunale fallimentare di Milano, è l’ultimo della lista, in una piazza redditizia ma anche difficile come quella milanese, per i suoi costi e per l’alta concorrenza. Sono finite in crisi catene come Vapore Italiano srl, creata dal milanese Vanni Bombonato, con i suoi food stores “That’s Vapore”. È in liquidazione giudiziale anche il gruppo Sun Tzu, creato nel 2015 da Edoardo Maggiori, che possiede 12 locali a Milano tra cui Filetteria Italiana, catena specializzata nella carne e i brand di cucina fusion Magnaki ed El Tacomaki.
L’anno scorso era arrivata all’epilogo la storia lunga 12 anni della catena di lunch bar Panini Durini, nata da un’idea di Stefano Saturinino, chiudendo da un giorno all’altro i locali e lasciando i dipendenti senza stipendi, costretti a rassegnare le dimissioni. Grazie a una vertenza della Filcams Cgil sono state recuperate la maggior parte delle spettanze. “Guardando alle condizioni di lavoro si tratta di un settore problematico – spiega Margherita Tonolini, sindacalista milanese della Filcams che segue il settore –. La maggior parte dei contratti sono part time da 20 ore settimanali, che si traducono in stipendi inferiori a mille euro al mese”.
Stipendi con cui è impossibile vivere, non solo a Milano ma anche nell’hinterland e nelle province lombarde. “La maggior parte delle vertenze sono legate proprio agli orari di lavoro e all’estrema flessibilità richiesta dalle aziende – prosegue – alle mansioni svolte, non in linea con l’inquadramento contrattuale, a un abuso e un utilizzo irregolare dei contratti di apprendistato. Le avvisaglie della crisi sono sempre le stesse: si inizia a tagliare personale, magari spingendo i dipendenti a occuparsi anche delle pulizie, gli stipendi iniziano ad arrivare in ritardo o solo in parte”. Catene che crescono sull’onda delle mode alimentari, si espandono mettendo le loro bandierine nel risiko della ristorazione e avviando campagne marketing, si sgonfiano quando i debiti si accumulano ed entrano nel mercato nuovi concorrenti.
Una piazza milanese, tra l’altro, dove i costi per affittare uno spazio sono alle stelle, abbandonata anche da piattaforme del food delivery come Uber Eats, che lavorano in simbiosi con le catene della ristorazione. Su Milano, quindi, si gioca anche una partita per i diritti. Il 17 maggio sono scesi in piazza, davanti al Duomo, i lavoratori Mc Donald’s per chiedere “un contratto integrativo che riconosca dignità e diritti”. Integrativo ottenuto, lo scorso gennaio, dai dipendenti della catena Roadhouse, dopo un braccio di ferro e una lunga contrattazione sindacale.
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