Il futuro dei semiconduttori vale mille miliardi di dollari

A livello globale le aziende di semiconduttori prevedono di investire circa mille miliardi di dollari in nuovi impianti entro il 2030, portando il fatturato annuo oltre la stessa soglia. Lo segnala McKinsey nello studio Semiconductors have a big opportunity—but barriers to scale remain, in cui individua cinque ostacoli alla crescita, in particolare nei mercati europeo e nordamericano: costi, materiali, dipendenza dall’estero, logistica e carenza di talenti.
Il primo nodo riguarda i costi. Negli Stati Uniti e in Europa, la costruzione e la gestione delle fabbriche di semiconduttori risultano sensibilmente più onerose rispetto all’Asia. Anche con i sussidi pubblici, un impianto maturo costa circa il 10% in più da costruire e fino al 35% in più da gestire negli Usa rispetto a Taiwan. In Europa i costi operativi sono paragonabili a quelli americani, con l’energia più cara compensata dal lavoro meno costoso. La Cina continentale mantiene invece un vantaggio competitivo fino al 20% sui costi operativi e fino al 40% su quelli di capitale, grazie anche a programmi di leasing statale delle attrezzature.
La seconda sfida è legata ai materiali. La produzione di chip di ultima generazione – sotto i dieci nanometri – e le tecniche di packaging avanzato richiedono quantità crescenti di materiali speciali. Negli Stati Uniti il consumo di materiali potrebbe salire del 60% entro il 2030, in Europa del 65%, una crescita superiore all’aumento della capacità produttiva stessa. Gran parte di queste forniture dovrà arrivare dall’Asia, aumentando la dipendenza dall’estero.
L’impatto della miniaturizzazione è altrettanto evidente sul fronte dei materiali. I nodi tecnologici più avanzati, sotto i dieci nanometri, richiedono un numero crescente di mask layer — gli strati di maschere litografiche che incidono i circuiti sul wafer di silicio — insieme a processi complessi di packaging. Tutto questo spinge verso l’alto il consumo di materiali e ne aumenta i costi. McKinsey calcola che entro il 2030 il fabbisogno di materiali crescerà del 60% negli Stati Uniti e del 65% in Europa, ben oltre l’aumento della capacità produttiva stimato tra il 45% e il 55%.

Un altro ostacolo riguarda la dipendenza dall’estero per materie prime e packaging. Elementi chiave come gallio, germanio, tungsteno e cobalto provengono per oltre il 70% da un solo Paese, spesso in aree geopoliticamente delicate. Allo stesso modo, la fase finale di assemblaggio e confezionamento dei chip è quasi interamente localizzata in Asia: tre quarti della capacità mondiale di packaging tradizionale si trovano tra Cina, Sud-Est asiatico e Taiwan, mentre nel packaging avanzato Taiwan e Corea del Sud concentrano oltre l’80% della produzione globale. Stati Uniti ed Europa restano marginali, con quote inferiori al 5%.
Il quarto ostacolo riguarda la logistica. I mercati occidentali non dispongono di porti e infrastrutture al livello di quelli asiatici: tra i primi venti porti mondiali solo cinque si trovano tra Usa ed Europa. Il primo porto americano, Charleston, è 53° al mondo; in Europa il migliore è Algeciras, decimo. Questa disparità incide su costi e tempi di consegna, aggravando le fragilità delle catene di approvvigionamento.

Infine, la carenza di talenti. Negli Stati Uniti e in Europa le offerte di lavoro per ruoli tecnici nei semiconduttori sono cresciute del 75% annuo tra il 2018 e il 2022. L’industria deve fronteggiare pensionamenti, alti tassi di abbandono, domanda crescente e programmi di formazione insufficienti. Anche Paesi emergenti come India ed Emirati si scontrano con lo stesso problema. Una risposta possibile arriva dai talent cluster: concentrazioni geografiche di imprese e competenze che attraggono investimenti, stimolano innovazione e creano ecosistemi resilienti.
La Repubblica