Mercato obbligazionario Usa in fibrillazione

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Mercato obbligazionario Usa in fibrillazione

Mercato obbligazionario Usa in fibrillazione

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi * –

Il mercato obbligazionario statunitense è in grande fibrillazione. Circa 9.200 mld di dollari in titoli del Tesoro statunitensi, pari a un terzo di tutto il debito e quasi il 30% del pil statunitense, scadranno nel 2025. Se a ciò si aggiunge il deficit federale di 1.900 mld previsto dal Congressional Budget Office (Cbo), ma sarà di più, quest’anno l’emissione totale di titoli supererà di molto i 10.000 mld di dollari! Una buona parte dell’ammontare è fatta di obbligazioni a breve scadenza di 1anno, i Treasury bill. Mai successo prima al mondo! Per il prossimo decennio le previsioni del Cbo evidenziano i deficit tra il 5 e il 7% del pil. Il che aggiungerebbe almeno altri 21.000 mld di dollari di nuovo debito entro il 2034. Per il momento le aste di vendita dei bond americani hanno resistito. Il tasso d’interesse dei titoli decennali è passato, però, dal 3,8 a oltre 4,5%, avvicinandosi al fatidico 5%, oggettivamente e psicologicamente pericoloso. Tale livello anticipò le gravi crisi del 2000 e del 2008. Inoltre, alti tassi d’interesse non fanno altro che aumentare il debito. Quest’anno gli interessi dovrebbero superare i 1.000 mld. Dal 2027 la quota degli interessi passivi sul bilancio è triplicata. Ovviamente il gigantesco debito americano non è imputabile solo a Trump, anche se nella sua prima presidenza vi aveva contribuito parecchio. Però, il suo comportamento di oggi, erratico e aggressivo sui dazi e nei rapporti geopolitici internazionali, ha sconquassato un ordine mondiale già molto precario e ha creato enormi problemi nella gestione del debito statunitense. L’incertezza delle politiche americane rischia di raffreddare la propensione di molti governi e di tante grandi banche e fondi internazionali ad acquistare i bond americani. Anche le frasi offensive espresse nei confronti di molti paesi, a cominciare da quelli europei e dai Brics, non paiono un incentivo alla fiducia. Trump e il suo governo non possono pensare che le sparate verbali bastino a calmare i mercati e convincerli della bontà dei titoli Usa. I mercati non sono guidati dagli executive order presidenziali. Infatti, l’Amministrazione si sta arrampicando sugli specchi per trovare delle toppe dopo le recenti evidenti turbolenze sui mercati dei titoli del Tesoro. In primo luogo, Trump ha minacciato di cacciare il governatore della Federal Reserve, Jerome Powell, se non avesse abbassato i tassi d’interesse. Powell si è opposto poiché sa che la guerra dei dazi farà, tra l’altro, lievitare i prezzi e alzare il tasso d’inflazione. Per il momento lo scontro è stato vinto dal governatore che è rimasto al suo posto, di fatto supportato dal tradizionale mondo economico e finanziario statunitense. La seconda mossa di Trump è quella di far approvare dal Congresso una legge, la notoria GENIUS Act, che consentirebbe agli emittenti e ai gestori delle stablecoin di acquistare titoli di Stato, in particolare i Treasury bill, e di metterli a garanzia delle criptovalute solitamente legate al dollaro. Se la legge passasse, ci si aspetta una crescita di questo mercato di almeno 2.000 mld di dollari, che potrebbero essere usati per comprare titoli Usa. Per Trump e i suoi guru ciò aiuterebbe il mercato obbligazionario. In questi giorni poi la Camera dei deputati ha approvato un disegno di legge “One Big Beatiful Bill Act” (!) che, nella sezione 899, afferma di voler aumentare la tassazione sui dividendi, sui profitti e sugli asset detenuti da banche e dai fondi d’investimento registrati in paesi stranieri che sono ritenuti fiscalmente ostili nei confronti degli Usa. In pratica sono tutti quelli che non obbediscono prontamente ai dettami trumpiani. Ciò fa parte della promessa, come con i dazi, di incassare di più da quel “mondo sfruttatore della generosità americana”, per arricchire gli americani. Secondo noi, è una mossa che induce alla fuga piuttosto che a maggior fiducia nell’America di oggi. L’altra iniziativa, ancora più importante, è rivolta alle autorità di regolamentazione statunitensi, la Federal Reserve, la Federal Deposit Insurance Corporation e l’Office of the Comptroller of the Currency, che sono chiamate dal governo a modificare, cioè a diminuire, la quantità di liquidità che le banche sono tenute ad accantonare a copertura dei loro investimenti, rendendole così disponibili per maggiori prestiti e per altre attività, in particolare sui mercati dei titoli del Tesoro. Si tratta di ridurre il coefficiente della famosa leva finanziaria: più titoli emessi in rapporto a una sempre minore garanzia. Sarebbe un enorme regalo al sistema bancario americano, che si dice entusiasta della riforma.

La leva finanziaria già in passato ha giocato un ruolo nefasto sul mercato dei derivati non regolamentati, la cui bolla ha contribuito enormemente alla crisi del subprime. Per le maggiori banche globali detto coefficiente è del 5%, cioè 5 dollari accantonati per ogni 100 investiti, ed era stato imposto proprio a seguito della grande crisi del 2007-9. Le banche più grandi, che sono anche i principali partecipanti al mercato dei titoli del Tesoro, ne trarrebbero i benefici più diretti. I rischi, naturalmente, sarebbero innanzitutto per i piccoli investitori.

* Mario Lettieri, già deputato e sottosegretario all’Economia; Paolo Raimondi, economista e docente universitario.

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