Bentornati a casa del padre


Sigmund Freud (foto Getty)
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Metti una sera nello studio di Freud a Londra, per uno spettacolo teatrale in cui il fondatore della psicoanalisi parla di sé e del suo essere figlio, e non parricida. La necessità, oggi urgente, che esistano padri “compiaciuti” e figli ritrovati
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“Cari amici, un giorno dovremo dimostrare l’esistenza di Freud”. (Jacques Lacan)
Metti una sera di primavera, nello studio di Sigmund “Schlomo” Freud a Londra. La casa dove ha abitato, in fuga dal nazismo nel 1938, negli ultimi quindici mesi della sua vita. Al numero 20 di Maresfield Gardens ad Hampstead, il silenzioso quartiere in collina a nord di Londra, tra i viali e le case georgiane in mattoni rossi, i giardini come quello in cui una fotografia in bianco e nero lo ritrae, davanti a un cespuglio di rose, seduto in una sdraio di legno assieme alla moglie Martha. Il suo studio al piano terreno è rimasto intatto, al piano superiore la biblioteca. Metti una sera qui, a casa di Freud e poi della figlia Anna, che oggi è la sede del Freud Museum di Londra, creato nel 1986 e gestito da una fondazione interamente privata. Un piccolo pubblico raccolto nella stanza per la rappresentazione di un testo teatrale che si intitola Father & Freud. Un breve testo che racconta di lui, che lo fa conoscere o meglio ri-conoscere. Stavolta sulla poltrona c’è Freud, sono i suoi ultimi mesi, mentre il suo primo biografo, il dottor Ernest Jones, tenta di carpirgli passo dopo passo i segreti di una vita. Uno spettacolo italiano e in lingua italiana (con adeguati sottopancia in inglese) giunto nel suo viaggio fino a Londra. L’autore della pièce, che con barba grigia occhialini e morbido abito di lino si cala nel personaggio, con rispetto ma senza alcuna fasulla sacralità (all’inizio il vecchio Freud fa esercizi mattutini di pilates), si chiama Glauco Maria Genga. E’ un medico psichiatra e psicoanalista che vive e lavora a Milano, dove si è formato alla psicoanalisi con Giacomo B. Contri, tra i maggiori discepoli di Lacan prima e poi riscopritore, nei lunghi anni della maturità, del pensiero di Freud, rilanciato in quello che ha chiamato “pensiero di natura”.
“Zia, parla con me; ho paura del buio. – Ma a che serve? Così non mi vedi lo stesso. – Non fa nulla, se qualcuno parla c’è la luce”. (Freud, 1905). E’ la voce infantile fuoricampo che dà inizio allo spettacolo. E’ la regista Adriana Bagnoli a spiegarci il senso di quell’incipit, che Freud trae da un episodio di un suo nipotino di tre anni: “Se qualcuno parla c’è luce. In teatro, come nell’analisi, come nella vita, c’è bisogno dell’atto della parola, che la parola faccia accadere qualcosa e possa fare compagnia e luce tra le cose oscure. Dentro questa citazione vi è la cifra che ho voluto dare alla messa in scena”. Sulla scena, o meglio nel mezzo della sala al primo piano di Maresfield Gardens, assieme all’autore-psicoanalista che interpreta il fondatore della psicoanalisi (la mise en abyme, che gran passione) c’è il primo dei suoi biografi, nonché allievo e bistrattato seguace, Ernest Jones, interpretato da un giovane talentuoso attore, Giovanni Spadaro Norella, il “servo di scena” incaricato di cavare, tra banali ricordi di vita e risposte secche, le profondità dello spirito umano che riguardano tutti, spettatori compresi. L’intento è chiaro, riportare all’attenzione e al pensiero di molti l’esistenza e la consistenza di Freud, sottraendolo al “mito di Freud”.
Ma perché venire fin qui, a Londra nella sua casa, per riscoprire Freud? E poi con quel binomio, Father & Freud (bella la & commerciale). Se si pensa a quante ne hanno dette e se ne dicono contro i padri, ridotti quando va bene a gestori del patriarcato e quando va male a veri e propri mostri, quel “padre & figlio” rimanda invece in modo esplicito a un rapporto fondativo e persino vantaggioso, produttivo. Viviamo in un’epoca che ha fatto di tutto per abolire la figura paterna, in nome di una assoluta libertà individuale, sciolta da ogni legame. In cui gli adolescenti, i figli, sono ridotti a materiali per tritacarne da fiction, Adolescence. Perché non stare invece ad ascoltare, una sera, ciò che il padre della psicoanalisi – che a dispetto del complesso di Edipo non è mai stato fautore del parricidio – ha da dirci ancora oggi sul padre, sul proprio padre, quel Jacob mercante di lana, ebreo osservante ma non bigotto, senza istruzione umanistica ma che nella vicenda e nel pensiero del figlio ha avuto tanta parte?

C’è qualcosa che va oltre la piccola deliziosa occasione londinese – a proposito, Father & Freud, che aveva debuttato lo scorso anno all’Out Off di Milano, continua e continuerà a girare in vari luoghi, spesso in scuole – per cui vale la pena interrogarsi su questa ricerca del padre della psicoanalisi (“Cari amici, un giorno dovremo dimostrare l’esistenza di Freud”, è una battuta profetica di Jacques Lacan che già indicava l’allontanamento e il tradimento del suo pensiero). Un motivo è che oggi la psicoanalisi non va più di moda, non è più la scienza delle scienze che ha attraversato e plasmato il pensiero del Novecento. Nella strumentazione scientifica e teorica con cui oggi l’occidente post moderno tenta di decifrare e porre rimedio a un disagio profondo degli individui tutt’altro che scomparso – uomini, donne e ovviamente i bambini – prevalgono altre strade. Le scoperte delle neuroscienze e le prassi mediche che ne derivano, che tendenzialmente riducono il mistero della psiche umana a questione di biologia e chimica. Le scienze cognitive con i loro modelli, e persino la psicologia ridotta a istruzioni per l’uso che si pratica agli sportelli delle Asl o delle scuole. Sono altre le vie, tutte legittime, con cui gli specialisti e legioni di operatori più o meno autorizzati provano a indicare, soprattutto ai giovani, le tecniche di sopravvivenza con cui tamponare, occultare, ma raramente risolvere, i propri disagi, conflitti, sofferenze profonde.
Oggi la psicoanalisi non va più di moda, non è più la scienza delle scienze che ha attraversato e plasmato il pensiero del Novecento
Qualche giorno fa, intervistata, la nota psicologa Maria Rita Parsi ha citato un sondaggio secondo cui il 15 per cento dei giovani tra gli 11 e i 25 anni ricorre all’intelligenza artificiale per avere risposte sui propri problemi psicologici. Un caso limite, da prendere con beneficio d’inventario, che però dice qualcosa della voglia di scorciatoie e facilitazioni con cui affrontiamo le nostre esperienze. La psicoanalisi, invece, è guardata col sospetto di non essere vera scienza – Freud teneva moltissimo, da medico, al fatto che la sua disciplina fosse una scienza della mente senza presupposti e gran parte dei suoi sonori scontri accademici giravano attorno a questa definizione –, un dibattito che prosegue da un secolo e mai si concluderà. Ma oggi, a rendere il dottor Sigmund Freud anche più sospetto, poco maneggevole, è quel suo insistere sulla questione del rapporto col padre – il principio di autorità, comunque la si voglia girare – e tanto più se scavando, come fa il copione di Father & Freud, si incontra il padre di un medico e intellettuale ebreo assimilato ma che come suo padre Jacob non cessò mai di interrogarsi sul Libro dei Libri, quello che parla del Padre. Freud non va più di moda perché stiamo disperatamente cercando, o siamo riusciti, a far fuori il Padre. E nel loro piccolo anche i nostri padri quotidiani minuscoli.
Un filo sottile di fantasia conduce il racconto biografico (“La sfida dello spettacolo è di portare il pubblico dentro la quotidianità di un genio, avvicinando la sua vita prima che le sue opere”, dice la regista Bagnoli). Non solo: sulla sterminata produzione di scritti, appunti, taccuini e lettere, molte lettere, di Freud c’è anche un puntiglioso scavo filologico che Genga traspone nel testo, coadiuvato dal lavoro di ricerca di Gabriella Pediconi, docente di Psicologia dinamica all’Università di Urbino. “In base all’evidenza dei miei sensi, mi trovo ora sull’Acropoli, ma non riesco a crederci”. L’epicentro del racconto è qui. E’ una celebre lettera scritta all’amico Romain Rolland nel 1936, “Un disturbo di memoria sull’Acropoli”, in cui Freud ripercorre l’episodio decenni dopo, al termine della sua vita. Fino a dargli finalmente un’interpretazione come un momento di profonda riflessione del rapporto col padre.
Freud non va più di moda perché stiamo disperatamente cercando, o siamo riusciti, a far fuori il Padre. E nel loro piccolo anche i nostri padri quotidiani minuscoli
Nell’estate del 1904 Sigmund e suo fratello Alexander fecero una vacanza insieme, come sempre. Andarono, per una serie di circostanze fortuite e forzose su cui il medico non cesserà di riflettere, ad Atene. Una meta eccezionale per lui, grande appassionato di cultura greca. Ma lì accade qualcosa. “Dunque tutto questo esiste veramente, proprio come l’abbiamo imparato a scuola?!”, fu il primo pensiero. “Quel giorno sull’Acropoli avrei potuto domandare a mio fratello: ‘E adesso siamo ad Atene, ci troviamo sull’Acropoli… Ne abbiamo davvero fatta di strada!’”. Poi un malore, uno strano mancamento (qualcosa di più di una banale sindrome di Stendhal) che non riuscì a spiegarsi. E che molti anni dopo collegherà, quasi come un rimorso, al pensiero che gli era sopravvenuto di suo padre.
Quel padre che non aveva studiato i classici, che non era diventato famoso quanto il figlio medico. Nella lettera scrive: “Se ci è permesso paragonare un così piccolo evento con uno più grande, non è forse accaduto che Napoleone I, durante la sua incoronazione a Notre-Dame, si voltasse verso uno dei suoi fratelli – sarà stato senz’altro il più grande, Giuseppe – per commentare: ‘Cosa direbbe Monsieur notre père, se potesse essere qui adesso?’”. Il pensiero improvviso, illuminante e lancinante, di un padre che sull’Acropoli non ci andò mai e che forse non l’avrebbe capita, e che suscita un inconscio rimorso come per tante vite di figli e padri incompresi. Un pensiero improvviso – “Tu vivi da scemo, ma qualche volta ti vengono in mente pensieri eccellenti”, è il primo dei Pensieri improvvisi di Andrej Sinjavskij. Ma Sigmund “Shlomo” Freud non viveva da scemo e i pensieri eccellenti erano il suo lavoro quotidiano. E così, il pensiero improvviso che anche suo padre Jacob, come “Monsieur notre père” di Napoleone, avrebbe potuto essere contento di vedere suo figlio contemplare l’Acropoli al culmine del suo successo, che avrebbe potuto anzi esserne compiaciuto – è la parola del Vangelo che Genga sceglie per la sua spiegazione – per il fatto che un figlio fosse riuscito bene nella vita. Che avesse superato il padre. “Ma qui incontriamo la soluzione del piccolo problema…”, scrive Freud: “Deve essere che un senso di colpa resta legato alla soddisfazione di aver fatto tanta strada; c’è qualcosa di illecito in questo, di proibito fin dall’età più lontana… E’ come se l’essenziale del successo consistesse nel fare più strada del padre, e che fosse tuttora proibito voler superare il padre… Nostro padre era un mercante, non aveva una formazione umanistica, e Atene non poteva significare molto per lui. Dunque, quello che ci guastò la gioia del viaggio ad Atene fu un sentimento di ‘pietà filiale’”.
Ma se questo rimorso, questa “pietà filiale”, potessero risolversi – certo non sempre, certo non in tutte le situazioni ed esistenze – in qualcosa di diverso da un parricidio, o da una sopraffazione? Il senso che Genga prova ad estrarre è questo: “Un padre può compiacersi del figlio e della buona riuscita del figlio che lo ha superato”. E’ qui, in fondo, la cosa più interessante da riscoprire di Freud: tanto più in un momento della nostra civiltà in cui quel rapporto – un padre & un figlio che si compiacciono – è stato tragicamente espulso persino come possibilità.
La strada che ha condotto Glauco Genga fin qui, all’incontro con la Fondazione Freud a Londra, parte da lontano; la prima idea gli venne molti anni fa, durante una visita al Museo Sigmund Freud di Vienna insieme ai colleghi dell’associazione psicoanalitica fondata da Giacomo B. Contri che oggi si chiama, per l’appunto, Società amici del pensiero Sigmund Freud. C’è un’intervista di Contri del 1992, in cui non parlava di padri né di Freud ma, curiosamente, di sant’Agostino – che trent’anni fa non andava di moda nemmeno nella chiesa come invece in questi primi giorni di Leone XIV, il Papa “figlio di Agostino”. Lo psicoanalista milanese diceva: “Secondo l’esperienza e la dottrina del mio lavoro, gli uomini si dividono in due categorie: quelli che sono centrati sull’appagamento, o soddisfazione, e quelli che non lo sono… Quelli per cui il motivo del Padre è decisivo, e quelli che lo rifiutano. Ma ricusare il Padre è come affermare che non esiste alcun universo: perché Padre vuol dire universo”. E, tornando all’Agostino della Città di Dio, tema della conversazione con la rivista 30 Giorni, aggiungeva: “Il mondo si divide esattamente in due, proprio come due città distinte: da una parte quelli che vivono in rapporto con l’universo, che sono centrati sull’appagamento e sul Padre; dall’altra la slabbrata città di quelli che non lo sono”. E concludeva. “Facciamola finita, siamo stati scemi troppo a lungo… Freud è stato l’unico, dico unico caso di pensiero, in tutta la modernità, che abbia riportato alla ribalta il Padre (a proposito: non erano i cristiani a poter parlare di Padre?)”.
Si inizia da bambini. E’ significativo che l’ultima figlia di Freud, Anna, che seguì i genitori in esilio – e che con il suo, di padre, non ebbe mai un rapporto semplice e risolto – abbia svolto per tutta la vita, in questa casa e in una casa lì a fianco poi venduta dagli eredi, un prezioso e sperimentale lavoro proprio con i bambini. Fu una rifugiata che si prese cura dei rifugiati, durante la guerra. Mentre Londra era bombardata, si dedicò a creare asili nido residenziali per bambini rimasti senza casa o genitori. All’Hampstead Child Therapy Course Anna Freud diede inizio a un’intera generazione di futuri psicoanalisti infantili. Due anni prima della sua morte, nel 1982, istituì un ente benefico e lasciò in eredità la casa al numero 20 di Maresfield Gardens per la creazione del museo. La ribellione ai padri data ormai da due o tre generazioni (o molte di più? Contri diceva che l’inventore dell’adolescenza fu Dostoevskij, che Freud considerava un vertice della letteratura), con esiti che potremmo definire contrastanti. Oggi c’è una guerra non soltanto generazionale contro quello che si definisce patriarcato.
“Quel che accadde a Freud nel 1904 non riguarda affatto una sua vicenda ‘privata’ – commenta Genga – In più di trent’anni di pratica professionale con il divano, ho constatato che molte sedute dei miei pazienti ruotano intorno alla medesima questione che Freud seppe cogliere e rilanciare anche grazie a quel che gli accadde sull’Acropoli”. Quell’antico e momentaneo sintomo, il mancamento, parla di un padre necessario e con cui ci si può riconciliare. Spiega Genga: Freud è dimenticato esattamente perché parla del padre e, da vero ebreo, oltre che del suo parla di Jahvè. Ma il suo giudizio oggi è negato, perché sarebbe un giudizio di condanna, o meglio di salvezza. “Perché costringe a pensare alla totalità dell’umano”. Ora che andiamo forte anche con i parricidi veri, c’è molto da ripensare, e senza indugi.
A chiudere lo spettacolo ci sono le note famose di Cat Stevens, il suo Father and Son (1970), che parla dell’identificazione del figlio con il padre. “Ma quanti si sono accorti che quel conflitto nascondeva lo specchio di un innamoramento reciproco?”, dice lo psicoanalista. “La strada inaugurata dalla psicoanalisi non comporta il parricidio, quanto piuttosto il ritrovamento della via della propria affermazione, anche sorpassando il padre, il quale potrebbe persino compiacersene”.
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