Rafah, l’orrore dei valichi chiusi

Questo silenzio lo rompono le bombe. Il valico di Rafah, il punto di confine tra Egitto e Palestina, è deserto, così com’è deserta la strada che da Al-Arish arriva fino a lì. Dal valico nessuno entra, nessuno esce. È domenica mattina, dall’altro lato una guerra impazza e comprime l’aria.

La missione della delegazione “Gaza oltre il confine” (l’abbiamo raccontato qui “Verso il valico di Rafah, palestinesi non siete soli” e qui “La carovana solidale da Al-Arish: «Chi resta in silenzio su Gaza è complice»”, promossa da Aoi (con Acli, Ipsia, Un Ponte Per, Arcs, Ciss, Oxfam Italia, Acs, Cric, EducAid, Vento di Terra), Arci e Assopace Palestina e composta da 11 parlamentari italiani appartenenti all’Intergruppo per la pace tra Israele e Palestina, 3 eurodeputati, 13 giornaliste e giornalisti, accademici, esperte ed esperti di diritto internazionale e cooperazione, ha raggiunto il valico di Rafah. E lo ha fatto per gridare insieme: “Stop all’occupazione illegale”, “Stop al genocidio”, per dire “no alla militarizzazione degli aiuti”, “basta apartheid”, “nessuna impunità per i crimini internazionali”, “stop armi ad Israele”, ma soprattutto “basta complicità”. Sì, perché se l’orrore ha preso forma e corpo dentro la Striscia di Gaza lo ha fatto sicuro del supporto del silenzio di gran parte della comunità internazionale. E così, insieme a quei cartelli, al valico di Rafah, attivisti, politici, giuristi hanno alzato anche le fotografie con i volti dei leader europei.
Israele bombarda su tutto e tutti. Tutti sono più di 53mila persone, tra cui 430 operatori umanitari, 1.400 sanitari e 220 giornalisti. Ventimila di questi “tutti” sono bambini. È per loro che l’ingresso del Valico si è riempito di pupazzi, giochi, vestitini.

Yousef si inginocchia e con un gessetto bianco traccia sull’asfalto la sagoma delle magliette e delle tutine per neonati. Mentre lo fa, piange. Ha 43 anni, lavora con l’ong EducAid, un’organizzazione italiana che da più di 20 anni opera nel settore dell’educazione, del supporto psicosociale e della promozione dei diritti dei più vulnerabili in diversi Paesi del Sud del mondo, anche nella Striscia di Gaza.

«Sono nato in un quartiere poverissimo di Gaza City, mio padre non l’ho mai conosciuto. I miei genitori erano rifugiati della Nakba. Vengo da una famiglia con 12 figli, i miei fratelli e le mie sorelle sono dietro quel valico». Ha vissuto la prima intifada, la seconda, l’occupazione. Era uscito dalla Striscia pochi giorni prima del 7 ottobre 2023 «per puro caso», dice. Nella Striscia di Gaza gestiva era il direttore del centro per disabili di EducAid. Ora, con le spalle all’Egitto, guarda il valico e pensa a loro, alla famiglia rimasta dentro e «ai miei 30 colleghi e colleghe, tutte persone con disabilità che, senza più mezzi, aiutano i più fragili tra i fragili». Yousef ha quasi sempre una sigaretta accesa tra le mani, è stanco. Quello che Israele sta facendo a Gaza lo chiama “esperimento di ingegneria sociale violenta” perché «vuole dimostrare che non è il diritto che determina il futuro dei popoli, è solo la forza che decide. Noi siamo qui e tra un’ora due milioni di persone potrebbero non esistere più. Due milioni di persone che contano su di noi. Se muore il diritto, se viene calpestato, allora non esiste più niente. Siamo chiamati a difendere la nostra umanità. Ciò che sta accadendo oggi a Gaza rappresenta un momento cruciale nella storia palestinese, e forse anche nella storia moderna in generale. Un esperimento condotto su un intero popolo, all’interno della propria terra (senza via di fuga) e sotto il gioco dell’occupazione. Il caos attuale non è un effetto collaterale, ma parte integrante di un progetto volto a distruggere la società palestinese dall’interno, per poi ricostruirla o come un corpo senza anima, o come un popolo disposto ad accettare di (soprav)vivere senza alcuna prospettiva politica e senza diritti. La fame non è solo uno strumento di sottomissione, ma un processo di “frattura interiore” che distrugge la coesione dell’identità individuale e della società nel suo complesso — ed è proprio qui che risiede la pericolosità della fame: non a caso, la starvation della popolazione civile è considerata un crimine di guerra. Nel caso della Striscia di Gaza rappresenta uno strumento per provocare un “cambiamento percettivo forzato” all’interno delle comunità, spostandone il focus e le priorità: dal pensiero rivolto alla liberazione collettiva, al pensiero rivolto alla sopravvivenza individuale a qualunque costo».

Alla carovana hanno partecipato anche gli esperti di diritto internazionale Alessandra Annoni, Micaela Frulli e Triestino Mariniello: «Con la Convenzione contro il genocidio», spiegano, «il mondo aveva detto ‘Mai più’ e questo doveva valere anche per i palestinesi. I palestinesi non sono un’eccezione, i palestinesi hanno diritto alla dignità, ai diritti umani e alla giustizia. Non accetteranno mai la deportazione, nonostante il livello di brutalità di Israele sia il più alto di sempre, i palestinesi non si arrenderanno. Non permetteremo che Gaza diventi la tomba del diritto internazionale».
È la seconda volta che la carovana solidale italiana arriva al valico di Rafah: «Lo scorso anno chiedevamo un cessate il fuoco, e lo stiamo ancora aspettando», spiega Ilaria Masieri di Aoi, «e l’ingresso di più aiuti umanitari. Ma c’era una linea rossa che la comunità internazionale aveva tracciato: no all’invasione di Rafah. Una linea che è stata superata da quasi un anno e nessuno ha fatto niente. E quindi siamo qui anche per chiedere alle nostre istituzioni di agire perché l’inazione è complicità, perché chi resta in silenzio è complice». La carovana vuole lanciare anche un altro messaggio: «La mancanza di una visione politica sta distruggendo tutto quello che è stato costruito dopo il secondo conflitto mondiale, ciò significa sostanzialmente che oggi i diritti umani valgono solo se sei bianco e occidentale. Siamo qui anche perché vogliamo costruire un percorso che allarghi la visione sull’offensiva militare, sull’occupazione, sull’apartheid, sul genocidio. Siamo alle porte dell’annessione della Striscia, di un nuovo sfollamento della popolazione e probabilmente di una sua deportazione fuori dalla Palestina. Sentir dire dal nostro ministro degli Esteri Tajani che quello che bisogna fare è aumentare l’ingresso di aiuti umanitari significa negare che la questione è anche politica, non solo umanitaria. A Gaza non c’è una carestia per ragioni climatiche o per catastrofi naturali, a Gaza la fame è intenzionalmente utilizzata come arma dall’inizio dell’offensiva». Negli ultimi mesi l’asticella dell’orrore si è alzata: «Si sta pensando di costruire degli hub militari che sarebbero responsabili della distribuzione degli aiuti, così da richiamare la popolazione verso Sud attraverso il bisogno di cibo, limitando sostanzialmente tutte le operazioni delle Nazioni Unite e delle organizzazioni internazionali. E questo significa che, attraverso l’utilizzo della fame, o il ricatto della fame, si costringe la popolazione a lasciare la propria terra. E una volta conquistata Gaza inizieranno con la Cisgiordania».

L’obiettivo della carovana era entrare a Gaza per contribuire a rompere il silenzio sullo sterminio del popolo palestinese, facilitare l’ingresso degli aiuti umanitari e raccogliere testimonianze dirette. «Ma quel cancello è rimasto sbarrato», dicono i partecipanti alla carovana. «I governi europei si sono voltati dall’altra parte. Questo silenzio è una responsabilità storica, politica e morale». Anche l’acqua, il cibo e i medicinali restano fuori. Tonnellate di aiuti umanitari ferme nelle due warehouse della Mezzaluna rossa egiziana nelle vicinanze del valico, due strutture di 30mila e 50mila metri quadrati. «Anche prima del blocco», dice davanti al valico Lotfy s.Gheith, head of operations and strategic communications della Mezzaluna rossa egiziana, «gli aiuti che riuscivamo a far passare non erano sufficienti per due milioni di persone. Erano una goccia rispetto ai bisogni che la popolazione esprimeva». Ma ci tiene e dirlo: «Noi siamo pronti a trasportare gli aiuti, il blocco totale è volontà di Israele».
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.
Vita.it