Il caso Almasri accende lo scontro tra governo e magistratura

È ormai scontro aperto tra magistratura e governo sul caso Almasri, dopo la decisione del Tribunale dei ministri di inviare alla Camera la richiesta di autorizzazione a procedere per Carlo Nordio, ministro della giustizia, Matteo Piantedosi, ministro degli interni e Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi. Il caso si riferisce ai fatti avvenuti il 19 gennaio 2025, quando, a Torino, viene arrestato Osama Almasri, generale libico su cui pendeva un mandato della Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità, torture e omicidi. L’arresto avviene su segnalazione Interpol attivata dalla CPI. Tuttavia, pochi giorni dopo, la Corte d’appello di Roma dispone la scarcerazione dell’uomo per un vizio procedurale: secondo la legge italiana (l. 237/2012), l’arresto su richiesta della CPI non può avvenire d’iniziativa della polizia, ma solo su autorizzazione del ministero della Giustizia. Alla luce di questa situazione, e sulla base di valutazioni di sicurezza nazionale documentate da informazioni riservate dell’AISE, il governo sceglie di espellere Almasri.
Il provvedimento è firmato dal ministro dell’Interno, ma frutto di una decisione condivisa tra Palazzo Chigi, Viminale e Ministero della Giustizia. L’espulsione viene attuata la sera stessa, tramite un volo CAI, predisposto con il supporto dei servizi. La scarcerazione era volta ad evitare possibili ritorsioni che il governo libico avrebbe potuto mettere in atto, contro nostri connazionali o interessi nazionali in territorio libico. Dopo un esposto dell’avvocato Li Gotti, pochi giorni dopo il fatto, il procuratore di Roma Francesco Lo Voi, aveva iscritto nel registro degli indagati, come atto dovuto, i due ministri, il sottosegretario Mantovano e la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Dopo otto mesi, ecco arrivare il verdetto del Tribunale dei ministri, che sorprendentemente archivia la posizione della premier, come se fosse stata tenuta all'oscuro di tutto in una vicenda che riguardava la sicurezza nazionale, mentre mette sotto accusa Nordio, Piantedosi, Mantovano oltre alla capo gabinetto di Nordio, Giusi Bartolozzi. La questione, secondo il ragionamento che fa Palazzo Chigi, innanzitutto si basa sul principio che quello della magistratura non fosse un atto dovuto, termine usato a sproposito troppe volte, e quasi sempre in riferimento ad indagini legate alla politica, ma un atto derivante da una precisa valutazione preconcetta.
Gli uomini vicini alla premier pensano che questo sia solo uno dei primi effetti della riforma della giustizia appena varata dal governo. A rafforzare questa tesi sono arrivate le improvvide affermazioni del presidente dell’Anm Cesare Parodi, che ospite alla trasmissione Radio Anch’io, rispondendo a una domanda del giornalista Giorgio Zanchini proprio su Bartolozzi, aveva risposto: «Un processo dove vengono accertati magari in via definitiva certi fatti ha evidentemente una ricaduta politica, neanche tanto indirettamente, sulle persone coinvolte». Ma analizzando nel merito delle cose, tralasciando un attimo la sua strumentalizzazione politica, è forse opportuno ritornare con la memoria all’ottobre del 2017, quando Giuseppe Pignatone, allora Procuratore della Repubblica di Roma, emanò una circolare, divenuta celebre, con la quale imponeva agli uffici giudiziari, sotto la sua competenza, una certa cautela per evitare iscrizioni frettolose. Secondo quel documento, l’iscrizione è “atto dovuto” solo quando ci sono “indizi specifici”, emersi dalla necessaria “valutazione” del PM sul contenuto delle notizie di reato. Per quanto riguardo poi nello specifico dei reati che si ipotizza, come in questo caso, siano stati commessi dal Presidente del Consiglio dei ministri o dai Ministri nell’esercizio delle loro funzioni, la giunta delle Camere penali annota come “La legge costituzionale numero 1 del 1989 che prevede poi, l’obbligo di avviso alle persone interessate e la Trasmissione al Tribunale dei Ministri, deve ovviamente essere letta alla luce della regola generale. Ne discende che non esistono automatismi."
A nessuno può sfuggire che, ogni interpretazione contraria, oltre a contraddire la legge, darebbe luogo ad esiti paradossali; la più insensata, infondata e fantasiosa denuncia dovrebbe dare luogo alla costituzione di un Tribunale dei Ministri, composto da tre magistrati, e determinare l’avvio di un’attività di indagine”.
Dire che un’indagine è “un atto dovuto” implica che l’iscrizione nel registro degli indagati sia una procedura automatica, svuotata di significato, quasi una tutela nei confronti dell’indagato. In realtà, in Italia l’iscrizione nel registro delle notizie di reato presuppone l’esistenza di un fatto che la Procura ritiene meritevole di approfondimento giudiziario. L’articolo 335 del Codice di procedura penale prevede che, quando perviene una notizia di reato, il pubblico ministero debba iscriverla in un apposito registro, indicando chi risulta indagato, se è già possibile identificarlo. Ma non tutte le notizie vengono automaticamente iscritte: il PM valuta la consistenza degli elementi e solo allora procede. Esiste una sola accezione corretta della formula “atto dovuto”: quando l’iscrizione è imposta dalla legge per consentire l’esercizio dei diritti di difesa, come nel caso in cui debba essere compiuto un atto garantito (es. un interrogatorio o una perquisizione). Lo staff della premier, che ha passato al setaccio le carte inviate dal Tribunale, ha certamente sottolineato la mancanza di questi presupposti, ribadendo poi come anche gli stessi magistrati, abbiano riconosciuto che gli atti compiuti erano intesi a tutelare un interesse pubblico e nazionale e a salvaguardare la sicurezza nazionale. Così come il governo contesta la motivazione riferita alla necessità di procedere (come nel caso di atto dovuto), considerata del tutto arbitraria.
È perciò probabile che la comunicazione impartita da Palazzo Chigi punterà a screditare i presupposti giuridici su cui si basa la richiesta del Tribunale, che invece, sempre secondo il governo, denoterebbe prerogative estranee al perimetro giudiziario. La stessa decisione di archiviare la posizione della premier, sempre secondo fonti di Palazzo Chigi, si potrebbe configurare come un maldestro tentativo, da parte della magistratura, di “limitare” in qualche modo gli effetti dell’atto sull’esecutivo, rafforzando quindi la tesi che si tratti di una decisione dai forti connotati politici. Il governo, secondo quello che trapela in queste ore da Palazzo Chigi, non pensa che il tentativo di una parte della parte della magistratura di influenzare, con i suoi atti, il percorso di riforma della giustizia, possa avere una qualche efficacia, anzi molti, nel ristretto staff della premier, pensano che questo fatto non faccia altro che rafforzare nell'opinione pubblica, l’idea che certa magistratura stia esondando da quelle che sono i propri compiti per condizionare, con il loro operato, talune scelte politiche.
Mentre a livello europeo, il governo sta spingendo, dopo la contestata sentenza della corte di giustizia europea sui paesi sicuri, sulle cancellerie e sulla commissione europea per accelerare il processo che porta all’entrata in vigore del nuovo patto sui migranti e l’asilo, che dovrebbe definitivamente sterilizzare lo stillicidio di interventi da parte dei giudici sul tema migrazione. Insomma, per Chigi far passare l’idea che esista una parte della magistratura che agisce spinta più da motivazioni politiche, che da quelle strettamente giudiziarie, potrebbe trovare, in questo fatto, terreno fertile, in vista del referendum sulla riforma della giustizia. “Certi magistrati non si rendono conto che con le loro azioni sconsiderate stanno agevolando il nostro compito per far capire ai cittadini la necessità di un riforma che possa rendere la giustizia italiana finalmente più equilibrata”, dice una autorevole fonte di Palazzo Chigi. Come dire che, in certi casi, forse non tutto il mal vien per nuocere.
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