L’Italia è ancora una repubblica fondata sul lavoro?

Il voto di domenica e lunedì
L’appello al voto e contro l’astensione viene anche dal vicepresidente della Conferenza episcopale italiana. Sono in gioco tre pilastri della Costituzione: il lavoro, l’accoglienza e l’uguaglianza tra le persone

Ha scritto Francesco Savino, vicepresidente della Conferenza dei vescovi italiani: “Quello dei referendum è un appuntamento che ci interpella non solo come cittadini, ma anche, per chi vive la fede cristiana, come custodi del bene comune e responsabili della speranza che ci è affidata. La partecipazione consapevole al voto è espressione di civiltà matura, atto di fedeltà al progetto condiviso di fedeltà. Andare a votare informati e consapevoli è una forma concreta di carità. I cinque quesiti referendari interrogano le fondamenta stesse della nostra convivenza civile e il modello di società che intendiamo costruire insieme. L’astensione non è mai neutra. È un silenzio che svuota la democrazia del suo significato partecipativo. La cittadinanza non è una concessione, ma il riconoscimento di una realtà già in atto”.
A me sembra chiarissima questa dichiarazione. E non capisco come possa essere contestata. Domenica e lunedì saremo chiamati a votare esattamente su questo: che società immaginiamo per il futuro? Una società ancora costruita sulle idee dei padri costituenti, e cioè una società fondata sul lavoro, sull’accoglienza, sulla uguaglianza tra le persone umane? Oppure una società fondata sulla libertà economica, sulla concorrenza, sulla produttività, sul profitto? I referendum che vanno al voto domenica, più di qualunque altro referendum del passato, pongono una domanda generale che in sostanza può essere riassunta in questa semplice questione: torniamo alla Costituzione o decidiamo di allontanarcene?
La Costituzione dice all’articolo 1: L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Non dice che è fondata sul prodotto, o sulla competizione, o sulla libertà di impresa. Questo non vuol dire che prodotto e competizione e libertà d’impresa siano visti come disvalori. No. Certamente sono valori in una società liberale. Ma sono valori subordinati al valore principale: il lavoro. È scritto così. E se si dovesse decidere che produttività e competizione sono più importanti del lavoro (e dunque dei diritti dei lavoratori) sarebbe necessario riformare la Costituzione. Esistono forze politiche pronte a proporre un cambio della Costituzione che sancisca la prevalenza del valore del profitto sul valore del lavoro?
I referendum proposti dai sindacati vanno inquadrati in questo modo. Il più importante dei quesiti sul lavoro è quello che propone una reintroduzione almeno parziale dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Che fu approvato 25 anni fa dal Parlamento sulla spinta del partito socialista, delle forze riformiste e dei sindacati e che produsse un passo verso l’applicazione completa della Costituzione. Quell’articolo 18 – che è stato poi cancellato dal Jobs Act nel 2015 – conferiva una enorme forza di contrattazione ai lavoratori dipendenti (seppure con l’esclusione delle piccole imprese) riducendo il potere delle aziende. Ora si dice: “ma quell’articolo è vecchio”. Perché è vecchio? Forse perché una società moderna deve essere organizzata sul profitto e non sui diritti dei lavoratori? Forse difendere i diritti e il potere dei lavoratori (e quindi anche i loro salari) è una azione conservatrice? Naturalmente si può rispondere di sì a queste domande. E si può auspicare una nuova fase della Repubblica, nella quale la democrazia e i diritti sociali subiscono una riduzione a vantaggio della competitività. Però io credo che questa idea andrebbe dichiarata. Cioè sarebbe giusto dire ai lavoratori: “Abbiamo deciso che tocca a voi pagare un prezzo per modernizzare l’Italia e renderla più ricca”.
Le cose stanno così. Ha perfettamente ragione monsignor Savino. Ai referendum si confronteranno e si sfideranno due visioni diverse dello sviluppo del nostro paese. È giusto che questo confronto ci sia, sarebbe giusto che si svolgesse ad armi pari, mentre sappiamo che non è così. Coloro che sostengono le idee a favore del lavoro, per vincere hanno bisogno di circa 25 milioni di voti. Quelli che sostengono gli interessi del profitto vincono se solo raccolgono due o tre milioni di voti di astensione che vanno a sommarsi all’astensione endemica e annullano i referendum. È come un incontro di scherma con uno dei due contendenti che ha cinque o sei chili di piombo appesi ai polsi. Sarebbe giusto lasciare libero il confronto tra le due idee di futuro anche in un’ottica successiva di mediazione. In un paese complesso e formato da diverse classi sociali e da compositi interessi, è logico che non ci sia la prevalenza schiacciante di una parte sull’altra. Una mediazione è sempre necessaria. Ma per realizzare una mediazione occorre che prima si svolga uno scontro leale. E invece i partiti della destra hanno rifiutato il confronto ritirandosi nella tana un po’ vile dell’astensione.
Intendiamoci, è successo così molte altre volte. Tutti i partiti, in occasioni diverse, hanno utilizzato l’astensione per vincere senza combattere. Possiamo dire che questa sia una cosa positiva? Cioè possiamo affermare che lo strumento referendum vada abolito visto che con il trucco del quorum non funziona più? E se abolissimo i referendum, che sono una parte importante della storia della nostra democrazia repubblicana, non faremmo un danno molto serio alla politica? Sulle questioni della cittadinanza agli stranieri il ragionamento è diverso. Qui stiamo parlando di una questione grandissima che qualifica una civiltà. Scegliamo la civiltà dell’accoglienza – che ha reso grande e grandioso l’Occidente – o scegliamo la civiltà del respingimento, che comporterebbe una caduta verticale di tutti i valori che sono i pilastri della nostra storia?
Anche qui dice bene monsignor Savino: la cittadinanza non è una concessione ma è il riconoscimento di una realtà. Gli stranieri che da cinque anni vivono in Italia, studiano in Italia, lavorano in Italia, pagano le tasse e la previdenza in Italia, sono italiani. Cioè sono nostri concittadini, nostri “fratelli” dice la Chiesa. Negarlo vuol dire immaginare una società razzista che assegna diritti diversi a seconda del sangue. Un clamoroso ritorno indietro nel tempo, una rinuncia ai valori essenziali della nostra cultura. Cosa ostacola una legge che almeno riduca i tempi della residenza in Italia necessari per ottenere la cittadinanza? L’incapacità dei partiti di porre le idee e i principi al di sopra dei possibili vantaggi elettorali. Cioè il degrado della politica e la sua abdicazione. La trasformazione della politica in commercio.
l'Unità