La Rai censura i referendum, la Meloni ha paura del quorum

L’opposizione insorge
La premier atterrita dai sondaggi che danno alla portata la soglia utile per abolire il Jobs act. Il servizio pubblico ignora i quesiti

La Rai finge che i referendum non esistano e, al di là delle rimostranze della sinistra, il boicottaggio a mezzo tv di Stato non fa onore a Giorgia Meloni. Stavolta l’opposizione ha tutte le ragioni di protestare a voce alta e l’interrogazione in commissione di Vigilanza presentata ieri dal Pd è davvero il minimo.
Per fortuna dei referendari c’è Mediaset. Marina Berlusconi non tiene minimamente in conto le logiche di schieramento. Pur essendo azionista di maggioranza di Fi, il cui leader Tajani ha ufficializzato ieri la scelta di disertare le urne, non si scompone se sul programma più seguito della tv italiana, Amici di Maria De Filippi, Geppi Cucciari si lancia in un lungo monologo a favore dei referendum. Lo fa anche Marco Mengoni, ospite di Fabio Fazio, e la spinta del vincitore di Sanremo è un altro cruccio per la maggioranza che punta non solo sul mancato raggiungimento del quorum ma anche sul flop pieno, cioè su una percentuale di votanti intorno al 30%. Per due brutte notizie agli antireferendari ne arriva una bellissima. La Cisl ha dato indicazione di non votare: “È una battaglia di retroguardia. Non andrò a votare”, esorta la segretaria Daniela Fumarola. La Cisl ha poi chiarito che non si tratta di un invito all’astensione ma il segnale agli iscritti è arrivato di certo comunque, forte e chiaro.
La maggioranza si frega le mani non solo perché il sabotaggio del secondo sindacato italiano ha ovviamente un’incidenza concreta sull’affluenza ma anche perché agevola la versione della prova referendaria che l’intera destra, evidentemente per ordine di scuderia, ha deciso di accreditare a partire dalla premier in persona. Il referendum, secondo questa interpretazione addomesticata, è solo una sorta di congresso del Pd sotto mentite spoglie e di battaglia politica tutta interna alla sinistra. Dunque roba di nessun interesse per tutti gli altri e in particolare per i lavoratori. Ovviamente la favola ha una componente di realtà che permette a Meloni e alla sua truppa di appigliarvisi e amplificare fino a falsificare. La minoranza, a partire dal presidente del partito Bonaccini, ha dato indicazione di votare contro.
La segretaria ha ribadito che la linea del partito è bocciare il Jobs Act, peraltro voluto e votato proprio dal Pd ai tempi di Renzi. Libertà di dissenso dunque, purché sia chiaro che la linea del partito è una e chi si schiera dall’altra parte ne ha il diritto ma non mette in discussione la scelta ufficiale. Un po’ tirata per i capelli, anzi molto, ma tant’è. Avendo comunque la minoranza dato indicazione di votare, sia pure per bocciare i quesiti, Elly ritiene che sarà comunque possibile contarsi, fa premio su una maggioranza schiacciante a favore dell’abrogazione del Jobs Act e in questo senso il referendum è effettivamente anche un fronte dello scontro che si consuma sempre meno sotto pelle nel Pd. Ma ridurlo a questo e a null’altro come cerca di fare il centrodestra è una visione di comodo che falsa radicalmente la realtà.
La vera buona notizia per il fronte referendario, ancor più del monologo della comica sarda, è lo schieramento opposto del presidente del Senato Ignazio La Russa. Per tutta la settimana e anche ieri è proseguita una campagna a tappeto dei referendari contro la posizione esplicita del presidente del Senato che promette di fare campagna astensionista, indicata come vulnus grave alla democrazia. Non manca, da parte di Avs la solita richiesta di dimissioni, che ormai non si nega a nessuno. In realtà lo strafalcione istituzionale c’è, ma limitato. Napolitano, da presidente della Repubblica, aveva sottolineato ai tempi del referendum sulle trivellazioni la piena correttezza dell’astensione e anche senza chiedere apertamente di non votare il senso del messaggio era stato inequivoco. La Russa, come al solito, è stato un po’ smodato. Ma la rabbia e il furore dell’opposizione sono probabilmente artificiali. A nessuno sfugge che la posizione di La Russa non solo non danneggia ma dà una mano all’affluenza.
Non significa che il quorum sia a portata di mano. Oggi però l’affluenza è indicata dai sondaggi intorno al 32% alla vigilia del rush finale. Non è dunque escluso che la campagna delle prossime settimane permetta almeno di avvicinarsi al quorum e forse anche di superarlo. Il secondo esito sarebbe clamoroso: un terremoto. Ma anche il primo, con una percentuale oltre il 40% sarebbe un fatto politico di prima grandezza e non resterebbe senza conseguenze. Non è un caso che per la prima volta la premier non si sia limitata alle belle parole del primo maggio ma abbia dato seguito al messaggio con la prima riuione non finita a schiaffoni e pesci in faccia con i sindacati. Un po’ Giorgia si rende conto che arrivare alle urne in clima da scontro frontale con Cgil e Uil andrebbe a tutto vantaggio dei referendari. Un po’ sa che forse dopo l’8 e il 9 giugno continuare a considerare sicurezza sul lavoro e salario questioni di non primaria urgenza sarà impossibile.
l'Unità