Povera Cisl, il glorioso sindacato di Carniti e Marini nelle mani dei figli dell’MSI

Il sindacato e lo spottone meloniano
I salari miseri e l’aumento dell’inflazione non sono pervenuti allo spottone meloniano sul palco della Cisl. E vai con: “Ogni giorno sono stati creati più di mille posti di lavoro” e altre amenità

C’era una volta la Cisl. C’è stata sino a quando, ieri, ha accettato di trasformarsi in una parte in prospettiva essenziale del sistema di potere e controllo sociale che Giorgia Meloni sta costruendo senza troppo clamore ma con metodica efficienza. Che la conquista del secondo sindacato italiano per importanza fosse il suo ambizioso obiettivo lo si era intuito già dalla scelta di affidare all’ex segretario del sindacato cattolico Luigi Sbarra un sottosegretariato alla presidenza del Consiglio di enorme importanza, quello per il Sud. L’operazione era persino più avanti di quel che si potesse subodorare.
Ieri, al congresso della Cgil, la segretaria della Confederazione Daniela Fumarola e la presidente del Consiglio si sono passate la palla con perfetto gioco di squadra, giocando di sponda secondo un copione evidentemente già messo a punto nei dettagli. La segretaria aveva aperto il XX Congresso con l’appello unitario rivolto a governo e imprese: “E’ tempo di un grande patto della responsabilità tra Governo, Sindacato e Sistema delle imprese per garantire coesione sociale e stabilità”. Meloni non chiedeva di meglio: “Il governo accetta questa sfida. Siamo pronti a fare la nostra parte”. In nome del “confronto” che “è sempre stato la cifra di questo governo” e che, sia chiaro, è cosa ben diversa dalla “logica antagonista e massimalista che nuove alle persone perché non porta risultati”. Fumarola, festante, ricorda i precedenti storici: il Patto di San Valentino del 1984 o il ruolo dell’omaggiato Ezio Tarantelli, ucciso dalle Brigate Rosse. In realtà nessuna delle divisioni a volte anche profonde e tragiche tra i principali sindacati aveva mai assunto caratteristiche simili a questo traghettamento della Cisl nell’area di un governo e di un governo di destra, che professa prìncipi apertamente anti egualitari. Non era certo questa la visione di Giulio Pastore, il dirigente della Cgil che, in opposizione al condizionamento che a suo parere comunisti e socialisti esercitavano sul sindacato, si staccò dalla Confederazione il 15 settembre 1948 per dare vita alla Libera Cgil, che diventò poi, il 30 aprile 1950, Cisl. Pastore era un democristiano ma tanto svincolato dalle logiche di appartenenza da provocare le ire dell’allora numero due dello scudocrociato Attilio Piccioni, uno dei tanti “stufi dell’anarchia della Cisl”, e del segretario del partito Gonnella: “Il concetto del sindacato libero è grossolanamente errato”. Diventato ministro nel governo Tambroni, nel 1960, si dimise senza consultare nessuno quando arrivarono a sostegno di quel governo i voti del Msi: “Questione di coerenza”, tagliò corto.
Negli anni ‘60 la Cisl una politica conflittuale e di classe sempre più decisa. Più del segretario Bruno Storti, leader per ben 18 anni, dal 1958 al 1976, a imporre la svolta era il sindacato metalmeccanico, la Fim guidata da dirigenti più giovani come i futuri segretari Luigi Macario e Pierre Carniti. “Occorrono meno documenti e più lotte”, esortava battagliero Carniti nel 1969 e invocava “una coscienza di classe come condizione storica che accomuna milioni di uomini in una posizione di sfruttamento e subordinazione agli interessi di pochi”. Negli anni della rivolta operaia, dal 1969 al 1980, la Cisl, che non doveva fare i conti con il relativo condizionamento del Pci, fu in quegli spesso ancora più combattiva della Cgil. Lo stesso Carniti siglò prima, nel gennaio 1983 l’accordo con governo e Confindustria accettato anche dalla Cgil contro l’inflazione, poi, nel febbraio 1984, l’intesa sulla eliminazione di fatto della scala mobile che portò invece alla rottura con la Cgil, che indisse il referendum abrogativo del 1985, nella quale fu contro ogni previsione sconfitta. Carniti non era però passato dall’altra parte della barricata: prendeva atto della sconfitta operaia che si era consumata a cavallo tra i ‘70 e gli ‘80 e cercava una strada, giusta o sbagliata che fosse, per ridurre il danno. Quando, nel luglio 1985, lasciò la segreteria a Franco Marini il quotidiano di Confindustria, Il Sole/24 ore, lo descrisse con una durezza mai usata né prima né dopo nei confronti di un sindacalista: “il più intelligentemente perverso fra coloro che si erano proposti di destabilizzare il sistema”.
Marini, grande organizzatore, molto più vicino alla politica che sarebbe diventata poi il suo campo d’azione dei suoi predecessori, impostò una politica spesso di fronteggiamento nei confronti del sindacato comunista, puntando sul dialogo e cercando di evitare asperità conflittualità ma senza alcuna arrendevolezza, che del resto sarebbe stata all’opposto del carattere battagliero dell’uomo. Sergio D’Antoni, segretario dal 1991, è stato il leader della concertazione, e in alcune occasioni contestato, anche duramente, dalla base, come del resto lo stesso collega leader della Cgil Bruno Trentin. Non si spaventò: dopo una contestazione particolarmente dura con uova e oggetti vari scagliati sul palco, si presentò con uno largo scudo di plexiglass e svolse il suo comizio incurante della marea di ortaggi e materiale vario che colpiva lo scudo. La parabola della Cisl, fatta salva la fase conflittuale degli anni ‘70, ha portato spesso il sindacato cattolico a cercare un dialogo con il governo anche a costo di prendere le distanze dalla Cgil e spesso anche dalla Uil. Ma pur su posizioni meno rigide, soprattutto nella scelta dei metodi di lotta, nessun segretario aveva sinora accettato di stringere un accordo con il governo contro le altre confederazioni. Era sempre rimasta nello stesso campo, pur adottando strategie e metodi distinti. Ieri ha fatto molto di più. Ha cambiato campo. Si è spostata dall’altra parte della rete.
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