Quando la sinistra voleva cancellare l’ergastolo, il sì del Pci al referendum radicale

Il reato di femminicidio
Nel 1981 comunisti e socialisti, pur consapevoli della sconfitta, si schierarono per l’abrogazione nella consultazione popolare promossa dai Radicali. Togliatti e Terracini ne invocavano la soppressione già durante i lavori della Costituente.

È scivolato via come un mero atto dovuto il voto unanime espresso dal Senato a favore dell’ergastolo per i casi di femminicidio. Eppure, anche questo reato nuovo colpito con una pena vecchia, chiarisce quanto abissale sia diventata la distanza tra le culture dell’Italia repubblicana e le visioni che prevalgono nel momento populista da alcuni decenni trionfante. Nel 1981, nel mezzo della violenza politica, mafiosa e criminale, il Pci e il Psi si schierarono con il “Sì” al referendum promosso dai Radicali volto all’abrogazione dell’ergastolo. Anche allora i fascisti cavalcavano le passioni più forcaiole del pubblico e concepivano la prigione come appagamento dell’istinto di vendetta. Al suo repertorio tradizionale, la morte quale unica certezza dell’eliminazione del nemico dalla società, il maestro della Meloni Almirante aggiungeva la spinta per la proclamazione dello “stato di guerra”, con annesso ripristino della pena di morte.
Pur consapevoli della sconfitta, i partiti della sinistra diedero comunque battaglia contro la sopravvivenza dei cascami del ventennio che nel supplizio estremo scorgevano un incancellabile attributo di uno Stato forte. Nella prova referendaria, per il Pci, in gioco era una fondamentale questione di principio che non tollerava calcoli congiunturali. Fu infatti già Togliatti in Assemblea Costituente, nella seduta del 10 dicembre 1946 (Prima Sottocommissione della Commissione per la Costituzione), a gettare una sfida ideale. Poiché nell’articolo 9 della nuova Carta – egli argomentò – non viene più ammessa la pena capitale, pacifica è la inferenza per cui la “pena dell’ergastolo, essendo altrettanto inumana, dovrebbe essere parimenti soppressa”. In nome dell’equivalenza tra l’immediato trapasso fisico e la lenta agonia civile, Umberto Terracini recepì l’indirizzo e rilanciò con una ulteriore suggestione la proposta del Migliore. Nell’Adunanza Plenaria della Commissione per la Costituzione (25 gennaio 1947) un suo emendamento stabiliva che, messa al bando la detenzione a vita, andava previsto anche il tetto di 15 anni come massimo edittale. Oltre questo lasso di tempo, la restrizione della libertà del soggetto avrebbe smarrito qualsiasi funzione rieducativa della pena per tramutarsi in un trattamento coercitivo lesivo della dignità personale.
Ai comunisti, che parlavano il linguaggio dei diritti umani, ovvero della dignità dell’individuo da tutelare contro l’ergastolo come surrogato della morte, si affiancò il socialista Mancini. Per una volta, in Aula si accodò ai rossi persino il monarchico reazionario Lucifero, che si professò sensibile ai loro richiami reiterati al supremo valore di umanità. Alle nobili considerazioni degli esponenti del movimento operaio, invece, si opposero strenuamente i democristiani, con un lessico che descriveva la massima punizione come un deterrente efficace, nell’ottica dello scopo della difesa sociale, proprio in virtù della sua perpetuità. Attraverso immagini alquanto rudi, Tupini, il presidente Dc della Prima Sottocommissione, stigmatizzò il proposito dei comunisti di tracciare un diritto penale minimo, raffigurando un simile obiettivo come “un incentivo a commettere delitti efferati, essendosi soppressa l’unica pena, quella di morte, capace di incutere paura ai grandi criminali”. Il democristiano veneto Umberto Merlin rinunciò al fioretto della dottrina per inginocchiarsi, agitando la spada, alla coscienza popolare secondo lui ancora turbata da un episodio di cronaca accaduto a Milano, dove “una donna ha barbaramente ucciso la moglie del suo amante e i suoi tre figlioletti”.
Aderendo ad un approccio di maggiore spessore tecnico-procedurale, Aldo Moro suggerì ai colleghi costituenti di riconoscere la competenza sulla specifica problematica al legislatore penale, autorizzato a risolverla in una sede più vasta nel quadro di una riforma generale del sistema delle pene. Non mancò, tuttavia, di preservare il nucleo della teoria classica della pena intesa come prezzo inevitabile che segue l’accertamento giudiziario. La carcerazione, disse Moro, serve anzitutto a soddisfare “l’esigenza della difesa della società umana che è compromessa dal moltiplicarsi di atti nefandi. L’ergastolo è rimasto l’unico motivo di inibizione al delitto”. Le ragioni ideali della sinistra furono archiviate in ossequio alla natura disciplinatrice della sanzione, al cui tratto di esemplarità venivano collegate le superiori istanze di deterrenza e sicurezza. Nel nuovo ordinamento repubblicano restò in piedi, però, una contraddizione palese tra il criterio costituzionale del recupero del reo (dignità della persona) e la possibilità di una condanna irreversibile a terminare la propria esistenza dietro le sbarre (curvatura disciplinatrice del castigo). Il mondo giuridico, da Francesco Carnelutti a Luigi Ferrajoli, rimarcò precisamente l’incombenza di questa aporia da rimuovere. La Corte costituzionale, quando è stata investita dello spinoso quesito, non ha mai sciolto il nodo valoriale in coerente punto di diritto, rifugiandosi al contrario in estrinseci rinvii alle condizioni effettuali.
Che a strappare ogni riferimento ad alti principi etico-giuridici sia la destra, non stupisce affatto: sforna di continuo novelli reati come manifesti ideologici da spacciare nel mercato politico e costruisce propagandisticamente penitenziari vicini e gulag lontani per accontentare i bassi appetiti che consigliano di inveire contro i galeotti, meglio ancora se stranieri. Indifferente, per sincera vocazione, all’appello antico rivolto da Filangieri alle classi dirigenti europee a rispettare la dignità dei reclusi (“Approssimatevi a queste mura spaventevoli, dove la libertà umana è circondata da’ ferri, e dove l’innocenza si trova confusa col delitto… Fate che una fiaccola permetta a’ vostri occhi di vedere il pallore di morte”), la premier si aggrappa allo spauracchio della galera per negare valide alternative alla cella anche per le piccole trasgressioni. Dinanzi al sovraffollamento il solo imperativo cui obbedire, assicura la statista di Colle Oppio, è “adeguare la capienza delle carceri alla necessità”, cioè “ampliare le strutture”. A fare rumore, piuttosto, è che l’eco remota di un umanesimo positivo di matrice social-comunista sia finita del tutto inascoltata a Palazzo Madama.
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