Sorpresa: c’è una politica che si ribella alla dittatura della questione morale

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Sorpresa: c’è una politica che si ribella alla dittatura della questione morale

Sorpresa: c’è una politica che si ribella alla dittatura della questione morale

l'editoriale del direttore

Segnali dalle inchieste di Milano, delle Marche e della Calabria: la politica, pur tra imbarazzi e silenzi, ora tenta di difendere il proprio ruolo per non essere succube delle procure. Perché sa che ogni indagato è innocente fino a prova contraria

C’è un elemento interessante, e persino sorprendente, che riguarda un filo conduttore sottile che collega tre importanti inchieste che stanno movimentando la politica italiana. Le tre inchieste sono quelle di Milano, delle Marche, della Calabria, e per quanto possano sembrare storie distanti l’una dall’altra, in quelle storie vi è un elemento curioso, e persino positivo, che riguarda una questione sempre più rara all’interno della vita dei partiti: il tentativo della politica di difendere il suo perimetro vitale. Non sempre la politica mostra attenzione a questo tema, non sempre la politica fa qualcosa per evitare che sia la magistratura, per dire, a dettare alla politica le sue azioni, le sue mosse, le sue scelte, e quando questo accade, per quanto alcune scelte siano dettate più dall’agenda della strumentalità che da quella della sincerità, vale la pena fermarsi un attimo e dire: bene così. Le tre storie sono differenti, lo sappiamo, ma negli ultimi giorni, in buona parte delle forze politiche, vi è stato un sussulto di garantismo che merita di essere annotato.

A Milano, tra molti imbarazzi, molte contorsioni, molti silenzi, il Partito democratico, nonostante la sua propensione naturale a seguire l’agenda grillino-contiana, ovverosia considerare tutti i politici indagati colpevoli fino a prova contraria, salvo diversa valutazione del tribunale del popolo contiano, ha fatto una scelta coraggiosa e ha deciso di non negare il suo sostegno a un sindaco indagato, come Beppe Sala, e a una giunta martoriata, come quella di Milano. La scelta è doppiamente importante perché il Partito democratico, modello Schlein, ha sempre considerato il modello Milano quanto di più distante vi possa essere a sinistra dall’idea di futuro che ha il Pd, e la distanza con il mondo produttivo che Milano incarna in questi anni ha assunto tassi di reciprocità importanti: Schlein non ha mai amato Milano, Milano non ha mai amato Schlein. Reciprocità assoluta, come direbbe Trump.

Eppure, nonostante alcune capriole politiche, Schlein ha deciso di non assecondare le sirene del grillismo a Milano e ha dato a Sala il suo sostegno. Lo ha fatto chiedendo, paraculescamente, di andare avanti rinnegando quanto fatto in questi anni dal sindaco con il modello Milano, vasto programma, ma lo ha fatto, ed è questo che conta, nonostante le richieste del M5s a Sala: dimissioni, dimissioni, dimissioni. Stessa scelta in fondo, senza troppi tentennamenti, nelle Marche. Anche qui un esponente del centrosinistra indagato, ovvero Matteo Ricci, e anche qui una scelta che, per Schlein, è stata coraggiosa: non chiedere preventivamente al proprio candidato alla regione Marche di dimettersi per un avviso di garanzia ma provare a convincere Giuseppe Conte della bontà della candidatura di Ricci nonostante l’avviso di garanzia. Il teatrino montato attorno alla candidatura di Ricci è stato umiliante, lo sappiamo, e la trasformazione di Giuseppe Conte da avvocato del popolo a tribuno del popolo – l’“a me le carte” di Conte ricorda l’“a me gli occhi” di Giucas Casella – è stata una scena a metà tra la commedia all’italiana e la tragedia politica. Ma nonostante questo, alla fine, il risultato è stato doppio, ed è un risultato che ha un suo peso: non solo il Pd sta candidando nelle Marche un politico indagato, che considera dunque innocente fino a prova contraria, ma a sostenerlo sono anche i campioni della classe dirigente grillina, ora contiana, che negli ultimi giorni, nei talk-show estivi, hanno deciso di utilizzare una narrazione a metà tra lo spasso e la comicità, come da tradizione grillina: noi siamo sempre garantisti, quello che facciamo è semplicemente valutare l’opportunità politica, caso per caso.

Un osservatore molto superficiale potrebbe notare che il garantismo del M5s viene casualmente declinato solo nelle occasioni in cui l’indagato è qualche esponente politico gradito al M5s, e Matteo Ricci, vicino a Goffredo Bettini, vicino a Giuseppe Conte, rientra certamente all’interno di questa categoria politica, come lo sono stati un tempo due ex sindaci grillini indagati e difesi dal M5s più per grillismo che per garantismo. Ma in ogni caso il sostegno di Ricci da parte del M5s – sostegno che Giuseppe Conte, in imbarazzo assoluto nel declinare le ragioni del garantismo, giovedì scorso ha scelto di rivendicare leggendo un testo scritto, come se fosse ostaggio degli alieni garantisti – ha prodotto uno spettacolo niente male. Che non sappiamo quanto durerà ma che, finché durerà, potremmo sintetizzare così: la politica che chiede a sé stessa di non farsi dettare i tempi della politica dalla magistratura.

Un altro osservatore molto disattento e malizioso potrebbe pensare che il garantismo del campo largo sarebbe stato più da campo furbo se i politici indagati (Sala e Ricci) fossero stati del centrodestra, ma siamo certi che il garantismo di Schlein e Conte è sincero e avrebbero trattato allo stesso modo il sindaco di Milano se fosse stato un protetto di Ignazio La Russa o il candidato nelle Marche se fosse stato un vecchio amico di Arianna Meloni. Tra le immagini da aggiungere al piccolo quadretto descritto, la politica che prova a piccoli passi, e a piccole furbate, a riappropriarsi dei suoi spazi, senza lasciare che la magistratura abbia sui partiti un effetto più dirompente di quello che hanno le leadership, c’è anche quella di Roberto Occhiuto, governatore della Calabria, accusato di corruzione per una storia che non riguarda la sua esperienza alla guida della regione, e che ha scelto di andare a votare un anno prima della scadenza naturale del suo mandato per evitare che quell’inchiesta potesse paralizzare la sua giunta, per evitare che i dirigenti regionali fossero terrorizzati dal firmare documenti per un presidente in scadenza e indagato, e a suo modo questa scelta rientra perfettamente nella cornice da cui siamo partiti: la magistratura fa il suo lavoro, la politica fa il proprio, e la politica che diventa succube della magistratura è semplicemente una politica che non fa bene il suo lavoro. Si potrebbe dire che questa dovrebbe essere semplicemente la normalità, ovvio. Ma in un’Italia in cui la Costituzione viene elogiata dimenticando sistematicamente di elogiare anche l’articolo 27, secondo cui ogni indagato è innocente fino a prova contraria, la straordinarietà fa notizia e vedere una politica che timidamente si ribella alla dittatura della questione morale non può che strappare un sorriso, in attesa della prossima piroetta dei Giucascaconte d’Italia.

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