I jolly sono selvaggi? Sara e André tra rito e rottura

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I jolly sono selvaggi? Sara e André tra rito e rottura

I jolly sono selvaggi? Sara e André tra rito e rottura

Alexandre Herculano fu il primo autore a richiamare l'attenzione su una curiosa frase con cui iniziavano diversi precetti in uso nella curia dei primi re del Portogallo: "la consuetudine è, des i è legge". La curiosità di questa frase risiede nell'espressione "dês i" e nel suo significato, che Herculano e, in seguito, Gama Barros interpretano come "dunque", ovvero qualcosa del tipo "è consuetudine e, pertanto, è legge".

Questa frase, il cui contesto è un'epoca – tra il XII e il XIII secolo – in cui la consuetudine aveva uno straordinario potere come fonte di diritto, contiene tuttavia qualcosa che continua ad essere particolarmente significativo per i tempi in cui viviamo. A prescindere dalla questione di fondo della filosofia del diritto e dall'evoluzione – o, meglio, dalla perdita di importanza – che la consuetudine ha avuto nel mondo giuridico, nella vita delle istituzioni più diverse, le pratiche acquisiscono spesso una dimensione di ripetizione che le rende quasi obbligatorie o, quantomeno, che ci induce a considerarle tali.

La vita sociale, parallelamente o indipendentemente dal quadro giuridico che la circonda, crea spontaneamente delle procedure. E queste procedure, sia perché spontanee, sia perché provengono da figure o posizioni di autorità, sia perché promuovono un certo senso di solidarietà, acquisiscono uno status quasi normativo. Ovviamente, le istituzioni culturali e i loro agenti non sono immuni da questa situazione.

Sebbene non siano gli unici a farlo, è importante sottolineare che, nel corso dei loro quasi vent'anni di lavoro, il duo Sara & André (Lisbona, 1980/1979) ha esplorato, interrogato e indagato in modo particolarmente originale e significativo questa dimensione di pratiche, abitudini e modi di procedere nel mondo dell'arte contemporanea. Wild Card, la mostra più recente del duo presso Balcony – Contemporary Art Gallery, prosegue e approfondisce la loro analisi critica e incisiva, ma anche profondamente graffiante e sarcastica, del sistema dell'arte contemporanea e la loro "sistematica messa in discussione di ciò che (…) persiste nel distinguere e classificare (…) l'artista come un essere con attributi apparentemente specifici", come afferma ripetutamente David Santos nel suo saggio Claim to fame (vedi A Palavra Imperfeita, 2018).

Il titolo della mostra trae ispirazione, secondo quanto riportato nel depliant espositivo, da un'espressione del lessico sportivo che corrisponde a un invito o a un posto a partecipare a un torneo assegnato a una persona o a una squadra che non soddisfa i criteri di selezione. In alcune competizioni sportive nordamericane, come la Major League Baseball (MLB) o la National Football League (NFL), le "wild card" sono squadre che si qualificano ai playoff del campionato senza aver vinto la rispettiva conference o divisione. Infatti, le "wild card" possono essere assegnate secondo regole prestabilite, come nel caso della MLB o della NFL, oppure, in alcuni sport, possono essere assegnate liberamente dagli organizzatori dell'evento, come nel caso del torneo di Wimbledon.

Ed è proprio in quest'ultimo senso, quello dell'invito, che si inserisce il titolo di questa mostra, che cerca di trasformare questo invito in un gesto che rimanda ai protocolli impliciti ed espliciti del sistema dell'arte contemporanea, in particolare all'accesso degli artisti alle gallerie e alla loro selezione e legittimazione da parte delle stesse.

Nel corso del tempo, e con cadenza quasi giornaliera, la galleria ha inoltrato a Sara e André email inviate spontaneamente dagli artisti, contenenti portfolio e proposte di mostre o collaborazioni che non erano state accettate. Wild Card è, quindi, una mostra in cui Sara e André compaiono, in qualità di curatori, invitando un gruppo di artisti a esporre. Pur essendo molto diversi tra loro, hanno una cosa in comune: hanno tutti, di propria iniziativa, deciso di presentarsi alla galleria in una sorta di candidatura spontanea, che, fino ad ora, non aveva avuto successo.

Questa mostra evoca, seppur implicitamente, il Salon des Refusés del 1863, creato per ordine di Napoleone III, che raccolse le opere rifiutate dalla giuria ufficiale del Salon de Paris, esponendole in uno spazio autonomo e consentendo così al pubblico di accedere a ciò che era stato precedentemente escluso. Non che Wild Card sia una mera rievocazione di quel momento o un recupero del "laisser le public juge" della decisione dell'imperatore, ma è impossibile considerare il punto di partenza di questa mostra senza considerare questo episodio storico e il modo in cui divenne un catalizzatore per la discussione sui meccanismi arbitrari di accettazione ed esclusione nel mondo dell'arte, giocando un ruolo centrale all'inizio della modernità.

In Wild Card, Sara e André trasformano quella che sarebbe una mostra personale in una collettiva, con opere di artisti come Chikki Chikki, Eduardo Antonio, Elmira Abolhassani, Hugo Castilho, Madalena Anjos, Osias André e VELOZ NARUA. Con questo spunto, gli artisti-curatori materializzano un'inversione simbolica della logica istituzionale, che anziché ignorare le manifestazioni spontanee di questi artisti, come sarebbe consuetudine e persino prevedibile, interrompe deliberatamente le regole del gioco, dando loro spazio, attenzione e contesto, in una lucida e provocatoria ricreazione di un'altra idea contenuta nell'espressione "jolly", quella di una carta fuori dal mazzo.

Attento e in dialogo con le procedure che sottendono il mondo artistico, ovvero quelle che guidano gli inviti alle mostre – curriculum, visibilità istituzionale, circolazione negli ambienti specializzati, tra le tante –, Wild Card si propone di denunciare una certa arbitrarietà dei confini tra interno ed esterno al campo e di smantellare i meccanismi di consacrazione che regolano questo stesso campo. Il testo della scheda espositiva, saggistico, sarcastico e costruito quasi interamente da citazioni altrui, è un ottimo esempio di questo approccio e, insieme alla strategia curatoriale, costituisce l'aspetto fondamentale di ciò che potremmo identificare come l'elemento autoriale del duo in questa mostra.

Naturalmente, questo approccio non è esente da rischi e pericoli. Da un lato, per il modo in cui la galleria si espone a ciò che normalmente cerca di filtrare, mostrando, in una certa misura, le sue venature interiori e le relazioni che altri artisti hanno liberamente voluto instaurare con essa. È importante non dimenticare che, mentre i filtri, gli oblio, le esclusioni e le forme di silenzio che strutturano il campo artistico possono e devono essere letti come trasversali, in questo caso sono quelli della galleria stessa a essere esposti. D'altro canto, è importante ricordare che esiste un altro significato dell'espressione "jolly" che non proviene dal lessico sportivo, ma piuttosto dai giochi di carte. In questo lessico, una "jolly" è una carta che può essere utilizzata per rappresentare o sostituire qualsiasi carta naturale, il che è normalmente il caso dei jolly. Questo significato dell'espressione rappresenta un rischio per i curatori, in quanto gli artisti invitati appaiono di fatto come jolly – gioco di parole voluto – come carte il cui valore è quello di rappresentare qualsiasi altra carta.

Fortunatamente, non è questo che accade in Wild Card. L'approccio curatoriale di questa mostra non suggerisce alcuna aspirazione didattica, né suggerisce un giudizio esemplare. Le opere selezionate, il loro allestimento e, ancora una volta, la prospettiva suggerita dal testo sul volantino della mostra mostrano che l'azione critica non avviene a distanza dalle opere e dagli artisti selezionati, perché i dialoghi ricercati e i discorsi sulla loro inclusione ed esclusione, sul mercato o sulle strategie di legittimazione, non sono condotti contro di loro, ma a partire da loro.

Nella sua introduzione a I due corpi del re, Kantorowicz afferma che "il misticismo, quando trasposto dalla confortevole penombra del mito e della finzione alla fredda luce dei fatti e della ragione, ha generalmente poco da offrire". In un bellissimo e attuale paragone con L'Albatro di Baudelaire, lo storico spiega che le metafore e le immagini più significative del linguaggio mistico, al di fuori del suo ambito o contesto, rischiano di apparire "povere e persino un po' sciocche". In questa introduzione, Kantorowicz ha cercato di spiegare come la cristologia del potere insita nell'idea dei due corpi del re, così potente nel contesto della teologia politica medievale, avesse poco senso in epoca Tudor.

Il mondo dell'arte ha, per così dire, un suo linguaggio mistico, le sue metafore e le sue immagini. Sara e André sono capaci, come pochi altri, di esporre al mondo dell'arte sia la confortevole penombra del mito e della finzione, sia la fredda incisione dei riflettori dei fatti e della ragione. In questo senso, Wild Card non è un jolly, poiché fa parte del percorso quasi ventennale del duo, che si unisce a progetti come Sara e André (3+1 – Arte Contemporânea, 2008), Exercício de Estilo (MNAC, 2014), Curated Curators I, II e III (Zaratan Arte Contemporânea, 2017) o O Colecionador de Belas-Artes (Galeria Quadrum, 2022).

© Carbonara Studio
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