Siamo immersi in un’epoca che parla tanto di tecnica e non più di futuro


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la riflessione
Il nostro è un tempo in cui l’espansione tecnologica tende a fare tutt’uno con la relazione con il mondo e con le sue proiezioni verso il futuro. Ma senza profezia, l'uomo non cammina: resta prigioniero dell'oggi
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Recentemente, nella tempesta politico-spirituale-mediatica che si genera a ogni nuova elezione al soglio di Pietro, ho letto Gesù di Nazaret di Benedetto XVI. Tra le molte cose splendide e degnissime della più profonda riflessione, ve n’è una, forse minore, su cui mi sembra indispensabile soffermarsi: “Il profeta non è un indovino, non racconta che cosa può avvenire domani… egli ci mostra il volto di Dio e in questo modo ci indica la strada che dobbiamo prendere”. Il nostro tempo è giustamente ossessionato, nel bene e nel male, dalla questione della tecnica. O meglio, il nostro è un tempo in cui l’espansione tecnologica tende a fare tutt’uno con la relazione con il mondo e con le sue proiezioni verso il futuro. Quasi tutto ciò che facciamo è tecnicamente mediato, così come tutte le nostre visioni del futuro, più che legate a una qualche ideologia politica, sono legate agli sviluppi della tecnica: in quale direzione andrà? Sarà un Eden in cui sostanzialmente non faremo nulla e godremo dei frutti dello sviluppo delle macchine da noi create? O saremo schiavi in mano a quelle stesse macchine? Giusto per tracciare due schemi estremi tra cui si danno infinite varianti di felicità e infelicità, di libertà e di servitù. Tuttavia, in questo orizzonte, che è il nostro, in cui la riflessione sul futuro è di fatto una riflessione sullo sviluppo tecnologico, ciò che mi sembra vada perduto sia proprio “il futuro” come concetto. Che cos’è il futuro? E’ semplicemente una proiezione in avanti dell’attuale, in cui l’attuale che ci attende è determinato sostanzialmente dallo sviluppo tecnologico? O è qualcosa di più e di diverso?
Il futuro come concetto, come idea di autentica tensione finalistica in cui c’è stata una Creazione, in cui c’è uno svolgimento storico e in cui ci sarà una Salvezza, nasce di fatto con il cristianesimo. Prima si era, sostanzialmente, all’interno di una temporalità ciclica ed eterna: in cui tutto era, è e sarà per sempre e da sempre. Stabilire un “inizio” implica anche, necessariamente, almeno per il nostro pensare, una “fine” e tutto lo sviluppo che vi è tra questi due estremi. Il futuro diviene allora il luogo della speranza, qualcosa da attivare attraverso le proprie azioni, attraverso la propria “fede”. Quando la speranza finalistica della salvezza, che era tutt’uno con la fede, progressivamente evapora, il futuro diviene via via il luogo del “progresso”, ossia il surrogato laico della salvezza. E il progresso diviene una pratica e quindi una “politica” contendibile da differenti ideologie che propongono diversi orizzonti in cui far dispiegare quel progresso. Ed è infatti, paradossalmente, attorno alla pervertita idea di “progresso” che avviene la più grande catastrofe della storia umana: la Seconda guerra mondiale. Il nazismo, il comunismo e, più laicamente, il liberalismo erano tre modelli diversi e inevitabilmente confliggenti di “progresso”. Sprofondato nel suo stesso delirio il primo, annichilito dalla sua stessa incapacità di creare benessere il secondo dopo che il sol dell’avvenire si è capito che non sarebbe mai sorto, è rimasto, inevitabilmente, soltanto il liberalismo. Ed è rimasto il liberalismo per il semplice fatto che “funziona”: pace, armonia sociale, benessere (in gradi e tempi diversi, ma tale è la realtà delle cose). E, al di là degli attuali rigurgiti russi o del caso specifico cinese, il liberalismo rimane l’orizzonte di gestione del mondo più efficace che vi sia quando una società giunge a un certo grado di avanzamento (è per questo, e non per altri motivi di contingenza storica che si è gridato alla fine della storia).
Il liberalismo, si diceva, funziona e il suo successo insuperabile deriva da questo, ma non solo da questo. Deriva anche dal fatto che è l’unica ideologia priva di profezia e dominata da quello che si può definire “l’imperio della legge”. Il liberalismo, infatti, non prospetta la possibilità di vedere “il volto di Dio”, non indica in un tale modo la prospettiva futura, il cammino da seguire nella storia e così il luogo della Salvezza (ed anche perciò è sostanzialmente pacifico). Il suo successo sta nel permettere una salvezza “giorno per giorno”. Una salvezza del pane quotidiano che poi diventa del frigorifero, degli scarichi funzionanti, dell’energia elettrica in tutte le sue variazioni, della rutilante tecnologia, delle cure mediche sempre più sofisticate, e di tutti quei tesori inestimabili fino a pochi decenni fa e che oggi costituiscono semplicemente la grammatica della nostra quotidianità più ordinaria e comune. E se l’uomo vivesse di solo pane, e delle infinite sublimazioni della propria tensione escatologica offerte dalla nostra sfolgorante civiltà globale, saremmo davvero alla fine della storia. Così, però, non è. L’aspirazione al benessere (ossia a più consumi e a più welfare) è un potente motore storico ma giunge a un compimento, non è un motore in grado di alimentare se stesso all’infinito. Solo la “profezia”, solo il richiamo a qualcosa che assomigli alla necessità di vedere “il volto di Dio” fa muovere davvero l’uomo nella storia.
Il bisogno di profezia dell’uomo, il bisogno di speranza, è violento – questo è sicuro. E’ la nostra sete di futuro a essere violenta, è il fatto che siamo esseri che si “infuturano”, per dirla con Dante, a renderci violenti, nel senso che rompiamo continuamente con lo stato di cose presente per crearne di nuovi. Vogliamo la cosa più vaga, “il nuovo”, perché siamo esseri che sperano. Ma questa spinta verso il futuro, per usare parole “profetiche”, non è altro che la spinta ad un continuo “esodo”, che poi non è altro che continua uscita da sé, continua spinta alla trascendenza. L’occidente liberale, che amiamo e difendiamo, si è illuso di poter mettersi al riparo da questa violenza della speranza, da questa necessità dirompente di futuro, sotto le grandiose e illuminate insegne della legge, senza cui pure è impossibile sopravvivere. Ma senza profezia, semplicemente, non si può vivere. È tutto questo ciò che avvertiamo, in occidente, come interminabile “decadenza” da molti decenni: questa assenza di profezia. Senza profezia, infatti, non si può divenire altro che piccoli, burocratizzati funzionari del progresso.
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