Il suicidio intellettuale dell’Italia: 9 ricercatori su 10 perderanno il lavoro entro il 2026

Il precariato, nel mondo della ricerca italiano, non è un’anomalia, ma una condizione strutturale del sistema. E questo significa che a breve assisteremo a una “fuga di cervelli” verso l’estero. L’ADI (Associazione Nazione Dottorandi e Dottori di Ricerca Italiani) ha presentato nei giorni scorsi una relazione sconfortante al Senato: “Siamo di fronte alla più urgente crisi lavorativa del Paese”, avverte l’associazione.
I numeri del precariatoL’indagine, realizzata raccogliendo 2.888 risposte di ricercatori e ricercatrici attivi nelle università e nei centri di ricerca italiani, ha evidenziato come entro luglio 2026 quasi 9 ricercatori su 10 saranno costretti a lasciare l’accademia: l’86,5% delle posizioni lavorative attualmente attive, infatti, scadranno entro il prossimo anno. "Questo avrà effetti drammatici sulla qualità della ricerca e della didattica proprio quando si richiederà agli atenei maggiore sforzo per via dell'apertura dell'accesso a medicina e delle sfide legate al miglioramento dell’offerta formativa”, si legge nel comunicato ADI.
Ad ulteriore conferma della condizione di precarietà di molti ricercatori, più del 30% delle posizioni lavorative dedicate alla ricerca dura meno di un anno – percentuale che sale al 43% per i posti finanziati da PRIN e PON. Inoltre, hanno la stessa breve durata il 50,5% delle borse e il 42,8% degli assegni di ricerca. Si tratta di contratti brevi ma che richiedono molte ore di lavoro “senza alcuna forma di tutela per straordinari, malattia e disoccupazione”, a fronte di retribuzioni poco soddisfacenti: “La retribuzione mediana netta mensile è di soli 1.630 euro” denuncia il comunicato. Inoltre, la natura dei finanziamenti per la ricerca viene definita “frammentaria e instabile”: il 28% delle posizioni è finanziato dal Pnrr, il 26% da Prin, solo il 24% da fondi istituzionali (Ffo), “dimostrando la dipendenza da progetti a termine”.

Questa situazione ha delle ripercussioni sulla salute mentale di chi la subisce: “Il 74% degli intervistati è molto preoccupato per la ricerca di un impiego nei prossimi due anni. I dati sulla qualità del sonno, lo stress e le testimonianze raccolte mostrano con chiarezza che la precarietà ha effetti negativi rilevanti sul benessere mentale”, scrive ADI. A farne le spese sono soprattutto le ricercatrici, che da un lato ottengono più assegni e borse di ricerca, ma dall’altro vedono assegnati meno contratti di ricerca a tempo determinato rispetto ai colleghi, segnalando un divario strutturale nell’accesso alle posizioni più stabili.
"Questi numeri descrivono un sistema della ricerca che non solo non valorizza i giovani ricercatori, ma li spinge all’uscita dopo anni di formazione e contributi fondamentali alla ricerca pubblica e al sistema-Italia”, si legge nel comunicato dell’associazione, che sottolinea come un mancato cambio di rotta favorirà la fuga dei cervelli e uno sviluppo di bassa qualità del nostro Paese, condannato così a “perdere in partenza la sfida delle transizioni ecologica, digitale e demografica”.
La cause del precariatoAlla base dell’instabilità cronica del sistema ricerca italiano vi è un insieme di cause strutturali che si intrecciano da decenni. La prima è il sottofinanziamento pubblico dell’università: l’Italia investe meno della media OCSE per studente e ha tagliato in modo significativo i fondi a partire dagli anni Duemila. Le riforme che si sono succedute – dalla “Gelmini” in poi – hanno introdotto logiche competitive senza accompagnarle con un adeguato aumento delle risorse, finendo per accentuare le disuguaglianze tra atenei e la frammentazione del sistema.

Un altro nodo irrisolto è l’assenza di un piano nazionale per il reclutamento. Le assunzioni sono lasciate alla disponibilità dei singoli atenei, che devono fare i conti con vincoli di bilancio e una burocrazia rigida. Questo produce concorsi a intermittenza, ritardi strutturali nei bandi e un ricorso sistematico a contratti precari per sopperire alla mancanza di personale strutturato. Inoltre, la dipendenza da finanziamenti competitivi e temporanei, come i PRIN, i PON o i fondi del PNRR, impedisce una programmazione a lungo termine della ricerca e rende le carriere instabili per definizione.
Infine, pesa una visione culturale miope che non riconosce il ruolo strategico della ricerca per il futuro del Paese. In mancanza di un cambiamento di paradigma, il rischio concreto è quello di un impoverimento progressivo del sistema universitario italiano, incapace di innovare, formare e trattenere le sue migliori energie.
La situazione in EuropaIl precariato nella ricerca non è un fenomeno esclusivamente italiano, ma l’Italia si distingue in Europa per la sua gravità e per l’assenza di strumenti efficaci di tutela e valorizzazione dei giovani ricercatori. In Germania, ad esempio, il sistema di tenure track consente ai ricercatori più promettenti di accedere in tempi certi a posizioni stabili, riducendo l’incertezza e facilitando una pianificazione di vita e carriera. In Francia, il Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS) offre contratti a tempo indeterminato già dopo il dottorato a una parte significativa dei ricercatori, garantendo continuità ai progetti di ricerca e investendo nella costruzione di competenze a lungo termine. Anche in Spagna, dove pure esistono difficoltà, sono presenti percorsi competitivi ma più prevedibili verso la stabilizzazione.
A livello di investimenti, l’Italia resta fanalino di coda: mentre paesi come la Germania e la Svezia destinano oltre il 3% del PIL alla ricerca e sviluppo, l’Italia si ferma stabilmente sotto l’1.5%. Questo squilibrio si riflette in un numero insufficiente di posizioni strutturate, nella scarsità di fondi ordinari destinati alle università e in una dipendenza cronica da finanziamenti estemporanei, a progetto. Il risultato è un sistema che, invece di trattenere e valorizzare i propri talenti, li costringe a cercare opportunità all’estero, dove la ricerca è riconosciuta come un investimento strategico.
Luce