Meloni lo sa: in Italia il lavoro mai così povero

La strategia astensionista della destra
Al contrario dei millantati record, il governo annaspa in economia e non ha migliorato l’occupazione. Le sparate di Meloni sono un diversivo

Forse non poteva andare diversamente ma è un fatto che la campagna referendaria, sin dall’inizio ma sempre più via via che si avvicinava l’apertura delle urne, ha completamente messo da parte l’oggetto della prova elettorale. Di Jobs Act e di diritti dei lavoratori si è parlato pochissimo. Di cittadinanza per gli immigrati in Italia da cinque anni ancora meno. Lo scontro, durissimo negli ultimi giorni, è stato tutto sul metodo invece che sul merito, cioè sull’invito del governo e della maggioranza a non votare, con tanto di esposizione personale aperta della premier.
Se a metterla su questo piano fosse stato il fronte referendario, cioè l’opposizione, non ci sarebbe nulla di strano. Nel merito i referendum implicano un certo numero di elementi imbarazzanti: sul lavoro si chiede di abrogare leggi varate non dalla destra ma dal Pd all’epoca di Renzi e lo stesso Pd, per non parlare dei centristi, sul voto è diviso. Sulla cittadinanza nessuno aveva interesse a far emergere la posizione dei 5S, che in materia d’immigrazione hanno posizioni distanti da quelle del centrosinistra e che quindi non hanno dato indicazione di voto per il quinto quesito, quello sulla cittadinanza. Inoltre è all’opposizione che almeno in apparenza fa più gioco chiamare al voto non su singoli punti ma contro il governo. In fondo fu proprio quella la trappola che mise fuori gioco Renzi nella fase effimera dei suoi trionfi. Dunque ci si sarebbe aspettato che a torcere la sfida in quel senso fosse l’opposizione, che in effetti si è prestata. Ma a sterzare più vigorosamente è stato invece il governo. È stata anzi Giorgia in prima persona.
La premier non era affatto spaventata dalla prova sulla cittadinanza: su quel fronte sa di avere dalla sua parte la maggioranza degli elettori, votanti o astenuti che siano. Ma sul lavoro le cose stanno diversamente. Con le sue palesi provocazioni, fatte apposta per spostare la discussione sulla campagna astensionista del governo invece che sui punti concreti sui quali si voterà domani, la premier ha voluto evitare che quegli argomenti finissero sotto i riflettori. Anche a costo di scontare un scontro politico frontale a tutto campo che probabilmente porterà alle urne più elettori di quanti avrebbero scelto di votare altrimenti. Lo ha fatto perché il lavoro è una ferita aperta. Anzi, forse è la ferita aperta. Nonostante l’opposizione lo denunci da tempo, i risultati del governo quanto a macroeconomia sono alquanto modesti. Al netto di una situazione tempestosa e piena di imprevisti Giorgetti è riuscito a tenere la barra abbastanza dritta ma in termini di occupazione Giorgia non può certo vantare risultati confortanti, al netto dello scadimento dei posti di lavoro, sempre meno pagati e di cattiva qualità.
In politica estera tutto è diventato molto più difficile dopo la vittoria di Trump ma la premier italiana non ha ancora dissipato, o meglio ha dissipato solo in parte, il capitale di credibilità internazionale che si era conquistata nei primi due anni di governo. Del resto si sta dando vigorosamente da fare per recuperare il terreno perduto con l’incauta sbandata “trumpista” ma è difficile al momento ipotizzare che possa farcela. Ma quando si arriva alle condizioni di lavoro la musica cambia e diventa una marcia funebre sia che si tratti di salari, tra i più bassi d’Europa, o di sicurezza, la cui insufficienza è dimostrata dalla strage quotidiana di lavoratori, o di diritti, falcidiati da un governo dopo l’altro e non solo da quelli di destra. Di lavoro, per Giorgia, meno si parla e meglio è. Molto meno pericolosa una bella rissa di quelle abituali nella politica italiana, con l’accusa di minare la democrazia per l’invito all’astensione. Quella è roba che si dimentica presto anche se aumenta il pericolo di una brutta sorpresa nell’affluenza: e se arrivasse intorno al 35% la sorpresa sarebbe bruttissima.
C’è una ragione in più per cui la premier preferisce che la realtà del lavoro in Italia resti in penombra. Su quel fronte sa che potrà fare pochissimo. Nel vertice di due giorni fa con lo stato maggiore del governo è stata chiarissima, anticipando l’annuncio del segretario generale della Nato Rutte del giorno seguente. Nell’arco di sette anni, dieci se passerà lo slittamento chiesto da Uk e Italia, la spesa per la Nato dovrà arrivare al 3,5% del Pil, più un altro 1,5% in infrastrutture necessarie però sempre alla preparazione per la guerra. Vuol dire oltre 40 miliardo all’anno e quanto si riuscirà a coprire con i trucchi contabili nei quali l’Italia eccelle è incerto. Come incertissimo è il tentativo di evitare di dover fare troppo debito per le armi puntando sugli eurobond, che comunque per l’Italia sarebbero un problema, sia pur minore. La condizione dei lavoratori, nel prossimo futuro, è destinata a peggiorare, non a migliorare. Per questo il primo dovere è evitare di parlarne. Referendum o non referendum.
l'Unità