Referendum, lavoro e cittadinanza: la scelta è tra reazione e riformismo

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Referendum, lavoro e cittadinanza: la scelta è tra reazione e riformismo

Referendum, lavoro e cittadinanza: la scelta è tra reazione e riformismo

Il voto dell'8 e 9 giugno

La possibilità di affermazione dei referendum è legata alla compattezza del fronte riformista e alla convinzione che da questa battaglia dipenderà il futuro del paese.

Foto Mauro Scrobogna / LaPresse
Foto Mauro Scrobogna / LaPresse

Referendum. Si vota l’otto e il nove giugno. Su due temi importantissimi: i diritti dei lavoratori e i diritti dei cittadini stranieri. Si tratta di decidere se mantenere il Jobs Act o ripristinare almeno in parte lo Statuto dei lavoratori.

Lo Statuto è una delle conquiste più importanti del movimento operaio. Fu pensato, scritto e fortemente voluto dal partito socialista che in quegli anni era al governo. La battaglia la guidò il ministro del lavoro Giacomo Brodolini (Psi) che purtroppo morì pochi mesi prima della sua approvazione (avvenuta esattamente 55 anni fa nel maggio del 1970, sulla spinta del celeberrimo autunno caldo). L’articolo più importante dello Statuto, l’articolo 18, quello che garantiva il posto di lavoro e toglieva potere ai datori di lavoro, fu abrogato con il Jobs Act. Chi difende il Jobs act dice che in realtà quel provvedimento favorì l’aumento dell’occupazione. La verità è che tutte le statistiche – richiamate recentemente anche dal presidente Mattarella – dicono che dal momento in cui entrò in vigore quel provvedimento si è verificato un crollo del potere di acquisto dei salari. E anche una fortissima riduzione del potere contrattuale e di controllo dei sindacati.

Poi – sempre col referendum – si tratta di consentire ai cittadini stranieri che la richiedono di ottenere la cittadinanza italiana dopo cinque anni nei quali hanno vissuto e lavorato in Italia. Secondo il vecchio principio dei liberali americani: “No taxation without representation” (cioè non si pagano le tasse senza il diritto alla rappresentanza, tantopiù alla cittadinanza). I cittadini stranieri, che lavorano in Italia, le tasse le pagano – a differenza di molti cittadini ricchi italiani – e pagano anche la “previdenza” rimpolpando le casse dell’Inps con le quali si pagano le pensioni agli italiani. I referendum avranno successo solo se almeno la metà degli aventi diritto andrà al voto. È noto che almeno un terzo degli aventi diritto non andrà a votare in nessun caso, perché non è più abituato ad andare a votare. Si tratta della astensione fisiologica. I partiti politici legati ai ceti più reazionari della società non vogliono né che torni lo statuto dei lavoratori né che siano riconosciuti agli stranieri i diritti umani. E quindi chiamano gli elettori a sommare i propri voti a quelli degli astenuti fisiologici in modo da far saltare il quorum.

Diciamo che le forze reazionarie sono molto avvantaggiate in questa battaglia. La possibilità di affermazione dei referendum è legata alla compattezza del fronte riformista e alla convinzione che da questa battaglia dipenderà il futuro del paese. Forse dipenderà più da questo voto che dall’esito delle elezioni politiche. Come fu nel 1974, nel referendum per il divorzio, che determinò una svolta nella politica italiana. La battaglia non è tra destra e sinistra ma tra forze che vogliono difendere la nostra civiltà liberal-socialista e cristiana e le forze che vogliono invece instaurare una vera e propria dittatura di classe che cancelli decenni di conquiste.

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