Sconfitti ma non vinti: democrazia, lavoro e sindacato dopo il referendum

Sì, il quorum non è stato raggiunto. Ma sono andate a votare 15 milioni di persone: erano donne, giovani, abitanti delle periferie devastate dal precariato, che hanno chiesto a gran voce una svolta. Alla politica, ma anche al sindacato. Che per vincere la sfida deve cambiare
Cosa rimane dopo i referendum sul lavoro e la cittadinanza? Molto più di ciò che si potrebbe desumere seguendo la discussione che va per la maggiore sui media. Davvero deludente salvo poche eccezioni. Si ragiona quasi esclusivamente se il referendum abbia o no rafforzato il cosiddetto campo largo a sinistra o se invece non sia stato un autogol che ha rafforzato ancora di più la Meloni e si suoi alleati. Si sollecita da più parti una resa dei conti nel Pd, enfatizzando le dichiarazioni di alcuni suoi esponenti politicamente irrilevanti. Alla discussione sfugge l’essenziale, ovvero il rapporto tra l’esito referendario e gli obiettivi che si proponeva e, insieme, il significato che la campagna referendaria ha rappresentato nel suo svolgersi per la principale organizzazione proponente e per tutte le reti di attivismo e militanza coinvolte sul territorio. Cosa ha significato quindi per le migliaia e migliaia di delegati, attivisti, nuovi militanti coinvolti in una esperienza straordinaria?
Partiamo dagli obiettivi. Ridare centralità al lavoro libero e dignitoso costruendo una prima vera inversione di tendenza sul piano dei diritti e delle tutele andando nella direzione opposta alle leggi sbagliate degli ultimi trent’anni che hanno visto coinvolte quasi tutte le forze politiche, e farlo puntando sulla partecipazione democratica. Quindi ridare, allo stesso tempo, centralità alla questione della democrazia, nella fase storica di maggiore crisi come dimostrano da anni i dati di tutti gli appuntamenti elettorali. Merito della Cgil è aver colto la relazione stretta fra le due cose. Se chi per vivere ha bisogno di lavorare – per usare le parole del suo segretario generale – si sente marginalizzato e irrilevante perderà progressivamente fiducia nella possibilità di veder cambiare la situazione attraverso la normale dialettica parlamentare, e perderà fiducia nella stessa partecipazione democratica.
Il referendum chiamava queste soggettività a decidere in prima persona sul proprio presente e sul proprio futuro. Votare diventava un modo per ribellarsi allo stato di cose presente. Discutere, come fanno un po’ tutti, dei suoi effetti sullo schieramento politico, rivela ancora una volta quello che il referendum voleva mettere in discussione, l’autoreferenzialità della politica, l’attitudine cioè a schierarsi sui problemi più per quel che significano per il proprio schieramento, che per gli avanzamenti o gli arretramenti che segnano per la vita e il lavoro delle persone. È indubbio che se l’obiettivo del referendum era abrogare “le leggi balorde” sul lavoro, che hanno tanti padri diversi, a destra e a sinistra, l’obiettivo non è stato raggiunto. Ma se l’impegno per un lavoro libero e dignitoso, la lotta al precariato e al razzismo, è la missione fondamentale del sindacato, il referendum va visto per quel che rappresenta in questo cammino, e per quel che rappresenta nella storia della Cgil, che di esso è stato il principale promotore. E allora che quasi 15 milioni di persone siano andate a votare, nonostante il boicottaggio attivo di chi ci governa (e di alte figure istituzionali), la scarsissima copertura mediatica dell’evento, senza dimenticare la bocciatura (dall’evidente sapore politico bipartisan) del referendum sull’autonomia differenziata, in un periodo in cui tutte le elezioni faticano a superare il 50% (dei votanti), è un dato enorme. Quindi certamente sconfitti ma assolutamente non vinti.
Così come il fatto che in centinaia di assemblee, nei luoghi di lavoro ma anche in contesti normalmente più lontani dal tradizionale agire del sindacato, dalle parrocchie all’associazionismo diffuso e al volontariato dei piccoli comuni, la Cgil abbia parlato a decine di migliaia di persone, e si sia discusso del lavoro, della sua sicurezza, della sua dignità, come valore fondante della stessa democrazia costituzionale. E la Cgil ha superato sé stessa, provando finalmente a realizzare, nei fatti, quel sindacato di strada che si era impegnata ad essere nei suoi ultimi congressi. La capacità di ricostruire un nuovo senso di comunità e di militanza a partire dal territorio non era affatto scontato. In molti contesti ciò è avvenuto e nel concretizzarsi ha dimostrato plasticamente che la costruzione di rete all’interno e la costruzione di rete all’esterno sono il vero amplificatore della forza organizzata del sindacato, ciò che rende più efficace la rappresentanza e che fa sembrare alla portata il raggiungimento degli obiettivi. Anche quando sono difficilissimi.
Per questo l’entusiasmo di chi ha animato la campagna referendaria (a cui certo è corrisposta una giusta delusione) è l’entusiasmo di chi ha contribuito a costruire una politica dal basso partendo dai bisogni del lavoro. Una cosa enorme in un Paese che viene da quarant’anni di delegittimazione del lavoro organizzato e di retorica della flessibilità “buona” che ha significato, come tutti ormai riconoscono, precarietà, bassi salari, perdita di dignità e valore. La partecipazione significativa al voto delle donne e dei giovani, uno dei dati evidenziati già nelle prime ore dalla chiusura delle urne, dice molto perché più di tutti hanno subito gli effetti di queste politiche. Il referendum, pur non avendo conseguito il quorum, quella strada l’ha finalmente aperta, assieme alla presa di coscienza del ruolo insostituibile del sindacato per costruire una alternativa allo stato di cose presente. Più che valutare il referendum per ragionare sullo stato di salute della possibile coalizione di governo alternativa alla destra, per il sindacato sarebbe giusto ragionare su come è necessario cambiare per essere all’altezza di questa sfida, per provare a rappresentare in maniera unitaria un mondo del lavoro sempre più frammentato. Sapendo che questo sarebbe anche il contributo più grande che la Cgil può dare alla stessa sinistra politica, perché la trasformazione sociale, il superamento della frammentazione, della solitudine, dell’individualismo, è la condizione di base del cambiamento politico.
Da questo punto di vista bisognerebbe cominciare ad esaminare i dati, non sulla base dei soli sondaggi necessariamente parziali ma attraverso un lavoro più approfondito che sarà indispensabile per guardare a fondo in questa esperienza irripetibile almeno in tempi brevi. Possiamo iniziare da ciò che abbiamo visto. In molte città quelli più positivi sono venuti dalle periferie, spesso dalle zone in cui maggiore è stato l’astensionismo alle consultazioni elettorali degli ultimi anni. Si è cominciato a infrangere un muro, quello che aveva relegato il confronto politico nei centri urbani, nelle zone di ceto medio più istruito e benestante. Ma, secondo l’impressione dei tanti presenti ai seggi e impegnati precedentemente nella campagna referendaria (ma confermati dai sondaggi), c’è stata una scarsa presenza al voto della fascia d’età centrale, che è poi quella dei lavoratori stabili, tradizionale punto di forza del sindacato e dove si concentra ancora oggi il grosso dei suoi iscritti. La parola d’ordine della solidarietà verso i più deboli, il ragionamento sensato che la precarietà e i subappalti, la stessa marginalizzazione degli immigrati alla base di gran parte del lavoro nero e a prezzi stracciati a cui le aziende ricorrono senza vincoli di sorta, sono alla base della stessa contrazione dei salari di tutti, hanno solo parzialmente scaldato i cuori dei lavoratori stabilmente occupati. Molti dei quali considerano addirittura l’esternalizzazione a ditte d’appalto, spesso fatte di lavoratori stranieri, un fatto che ha garantito la tenuta economica delle loro aziende e la stabilità del loro lavoro. La difficoltà nella partecipazione al voto incontrata in gran parte del Mezzogiorno che vive della sua specifica e irrisolta crisi intrecciata a quella del Paese ma anche in territori dove l’insediamento del lavoro è forte rappresentano, altrettanto, grandi questioni.
Si pongono quindi domande impegnative a cui la Cgil sarà chiamata a rispondere nei prossimi mesi e nei prossimi anni. Noi ci inseriamo nel solco di queste domande e dell’inevitabile riflessione che suscitano. Axel Honneth nel suo ultimo prezioso contributo – Il lavoratore sovrano, lavoro e cittadinanza democratica – approfondisce il rapporto tra teoria democratica e ruolo del lavoro: “uno dei più grandi difetti di quasi tutte le teorie della democrazia – scrive – è ostinarsi a dimenticare che i soggetti di cui si compone il sovrano da esse invocato a gran voce, sono sempre, per la maggior parte, persone che lavorano”. È di grande interesse leggere nella prefazione all’edizione italiana un omaggio al pensiero politico di Bruno Trentin e della Cgil in particolare quando scrive che nelle società democratiche i rapporti di lavoro sono dignitosi quanto democratizzati al loro interno affinché ogni lavoratore e ogni lavoratrice possono concepirsi come membri di una collettività che si autodetermina prafrasando proprio Trentin.
Per la cultura democratica del nostro Paese questa è stata una conquista fondamentale che ha una radice precisa. L’autoemancipazione del lavoro prima ancora che di Trentin era parte della cultura politica di Giuseppe Di Vittorio che ha segnato la storia del sindacato italiano e della Cgil in particolare. A partire dalla nostra Carta costituzionale. Quante sono le Costituzioni fondate sul lavoro? Perché la nostra è assolutamente unica? Per una ragione essenziale: senza il contributo delle lavoratrici e dei lavoratori il nostro Paese non si sarebbe mai riscattato dal fascismo e non si sarebbe mai liberato dall’occupazione nazista. Gli scioperi del 1943 e del 1944 hanno legittimato i lavoratori a scrivere la Costituzione mentre le classi dirigenti erano ampiamente compromesse con il regime e mai avrebbero avuto titolo a vergare un rigo della Carta. È quindi più evidente nel nostro Paese il rapporto intrinseco tra lavoro e democrazia. Ma questo binomio inscindibile nella Carta vive solo nella materialità dei rapporti sociali. La crisi democratica inizia con la ristrutturazione capitalistica della seconda metà degli anni Settanta che avrà come obiettivo, non a caso, proprio il sindacato nella sua forma più democratica e partecipata
E qui veniamo ad un nodo, per noi, mai veramente sciolto. Come, cioè, sia mancata una riflessione collettiva vera tanto nel sindacato quanto nei partiti eredi della tradizione di rappresentanza del movimento operaio su ciò che è accaduto a partire da quel tempo attraversando gli anni Ottanta e Novanta e come questa mancanza abbia inciso sulle difficoltà dell’intero sindacato di costruire una nuova dimensione strategica, di fronte ai meccanismi congiunti del monetarismo e della ristrutturazione del sistema capitalistico. La sconfitta del sindacato industriale degli anni Settanta cioè del più forte sindacato del mondo, determinante nella costruzione della democrazia materiale e quindi dell’applicazione della Costituzione è anche, appunto, la sconfitta di un sindacato fortemente connotato dalla democrazia. Il sindacato dei consigli. Bruno Trentin, che di quel sindacato fu artefice insieme a tutta la Flm, riflette nel 1994, al termine del suo mandato di segretario generale della Cgil, in modo lucido nella premessa al libro intervista di Pio Galli sulla vertenza Fiat, uno spartiacque nella storia del nostro paese. Pio Galli era nel 1980 segretario generale della Fiom.
Provano a riproporre un dibattito consapevoli che tanto di quella storia era stato rimosso. E nella rimozione era venuta meno la capacità del sindacato di situarsi correttamente nella trasformazione del sistema capitalistico. Per loro (e per noi) l’idea che fosse l’ingresso nella stanza dei bottoni, cioè il governo del Paese la vera strada per governare le trasformazioni del capitalismo da sempre forte nel Pci, influì molto a partire dalla svolta dell’Eur sulle scelte della Cgil. Non sappiamo se la strategia del sindacato nelle crisi economiche degli anni Settanta come dice Trentin se accompagnata da una capacità progettuale avrebbe potuto risolversi in qualcosa in più “di una mera disponibilità alla moderazione salariale disancorata dalla forte domanda di democrazia e di potere che era presente in tante lotte sociali”.
Oggi con certezza possiamo dire solo una cosa: la mancata riflessione sulle ragioni vere di quella sconfitta, la difficoltà a comprendere che non tanto di post-taylorismo si trattava (o non solo) ma di strutturazione del capitalismo a rete e filiere (accelerata negli anni successivi dai processi di digitalizzazione )ha impedito per anni di riflettere su quale forma dell’azione sindacale fosse davvero più adeguata a rappresentare il lavoro frammentato del nuovo sfruttamento.
*Fondazione Di Vittorio
FINE PRIMA PARTE (CONTINUA)
l'Unità