Bandiera della Palestina sotto attacco: la solidarietà fa paura e la censura dilaga ovunque

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Bandiera della Palestina sotto attacco: la solidarietà fa paura e la censura dilaga ovunque

Bandiera della Palestina sotto attacco: la solidarietà fa paura e la censura dilaga ovunque

"La polizia è salita a casa nostra per chiederci di rimuovere la bandiera della Palestina esposta sul nostro balcone privato. Non stavamo disturbando nessuno. Non stavamo violando alcuna legge. Stavamo semplicemente esercitando il nostro diritto di espressione in uno spazio che ci appartiene”. Sofia Mirizzi racconta così sui social quanto avvenuto a casa dei genitori a Putignano, in provincia di Bari, in occasione del Giro d’Italia: secondo gli agenti, la bandiera doveva essere tolta “perché il Giro d’Italia sarebbe passato proprio sotto casa nostra e la bandiera sarebbe stata inquadrata dalle telecamere nazionali”, racconta Mirizzi.

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"Ci chiediamo con preoccupazione - scrive la giovane sul suo profilo - da quando esporre una bandiera che rappresenta un popolo e una causa umanitaria è diventato motivo d’intervento delle forze dell’ordine e in quale momento il sostegno civile e pacifico a un popolo sotto occupazione è diventato un problema di ordine pubblico".

Il caso ha sollevato polemiche immediate. I Giovani democratici della Puglia denunciano il fatto come “gravissimo e inaccettabile”: “Nessun regolamento, nessuna ragione di 'opportunità televisiva' può giustificare un intervento di questo tipo. Siamo di fronte a un atto di censura preventiva che mortifica la libertà d'espressione sancita dalla nostra Costituzione”, scrivono in una nota. Secondo quanto riportato dalla Gazzetta del Mezzogiorno, i due poliziotti avrebbero specificato che la loro richiesta non era un ordine e che la coppia “ha accettato di buon grado di rimuovere la bandiera, anche se non hanno ricevuto alcuna spiegazione in merito al regolamento del Giro d'Italia”. Rimane la sensazione di una sproporzione del gesto, a fronte della sicura assenza di una reale minaccia di qualsiasi tipo.

Non si tratta certo di un caso singolo e isolato. Negli ultimi due anni, la questione palestinese è tornata al centro del dibattito pubblico, ma intorno ad essa si moltiplicano episodi di censura.

La censura nei luoghi pubblici e nelle scuole

L’episodio di Putignano non è un’eccezione. Negli ultimi mesi anche in Italia, si sono moltiplicate le circostanze in cui l’esposizione di simboli legati alla causa palestinese ha generato reazioni sproporzionate da parte di istituzioni, forze dell’ordine o enti organizzatori.

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A Roma, durante un corteo pro-Palestina del 12 ottobre 2024 - organizzato in occasione della Giornata mondiale dell’alimentazione - la polizia ha impedito l’esposizione di bandiere palestinesi nei pressi della sede della FAO. Le immagini della rimozione forzata, rilanciate sui social, hanno scatenato proteste e interrogazioni parlamentari. L’episodio è stato denunciato come un atto di repressione politica, non giustificato da motivi di sicurezza pubblica.

Pochi mesi dopo, a Montecitorio, è stato l’ex deputato dei Verdi Stefano Apuzzo a esporre due bandiere palestinesi dal balcone della Sala della Lupa, sede della Camera dei Deputati. Le bandiere sono state prontamente rimosse dai commessi parlamentari e Apuzzo ha parlato di “una censura istituzionale contro un gesto simbolico e pacifico”.

Cosa succede nelle scuole e nelle università

Anche in ambito scolastico e accademico affiorano le pressioni su chi cerca di esprimere solidarietà al popolo palestinese, non solo attraverso i simboli, o anche solo creare occasioni di dialogo sul tema. Nell’ottobre dello scorso anno, al liceo Righi di Roma alcuni studenti hanno esposto bandiere palestinesi dalle finestre della scuola dopo l'orario delle lezioni e la dirigente scolastica ha inviato una comunicazione alle famiglie, minacciando procedimenti disciplinari e sottolineando che "a scuola non si fa politica".

In diversi contesti, docenti universitari e ricercatori che hanno firmato appelli o manifesti a sostegno della Palestina hanno subito pressioni informali o minacce di sospensione da parte degli atenei. A settembre 2024, l'associazione studentesca Cravos aveva organizzato una conferenza sul conflitto israelo-palestinese all’Università di Siena, con ospiti internazionali. Nonostante l'approvazione iniziale, l'evento è stato annullato dal Senato accademico, suscitando accuse di censura da parte degli studenti.

La censura negli spazi digitali

Ma la censura non riguarda solo gli spazi fisici: la rimozione di contenuti online legati alla Palestina è oggi sistematica e documentata. A gennaio Hamzah Saadah, attore e attivista palestinese che utilizza i social media per documentare le condizioni dei civili palestinesi durante il conflitto, spesso coinvolgendo in dirette interlocutori israeliani, aveva denunciato la sospensione del suo account da parte di Meta. Il blocco è stato superato grazie al sostegno immediato dei suoi follower, che si sono mobilitati per ripristinare il profilo e consentirgli di proseguire il suo lavoro. Pochi giorni dopo l’episodio, la polizia si è presentata a casa di Saadah a seguito di una segnalazione che lo accusava di possedere armi: un’accusa che lui stesso ha definito un ulteriore prezzo da pagare per il suo impegno nel raccontare la verità.

La rimozione di post e profili non riguarda solo singoli cittadini, ma anche i media: a giugno 2024, la testata L’Indipendente ha denunciato che TikTok ha rimosso un video storico sulla nascita dello Stato di Israele e la Nakba, etichettandolo come “violazione delle linee guida”. La piattaforma ha anche minacciato la chiusura dell’account.

Non si tratta di casi isolati: secondo un report di 7amleh - The Arab Center for the Advancement of Social Media, diffuso alla fine del 2024, Meta avrebbe abbassato la "soglia di affidabilità" relativa ai posti di utenti palestinesi nel sistema di moderazione automatico, aumentando vertiginosamente il numero di post eliminati. Le prove raccolte da 7amleh rivelano che “Meta applica politiche ingiuste contro i contenuti palestinesi, cancellando i post o limitando la visibilità in base a pretese violazioni delle politiche, mentre chiude un occhio sui discorsi di odio e incitamento contro i palestinesi”. Jalal Abukhater, responsabile dell'advocacy di 7amleh, ha dichiarato: "Le continue pratiche discriminatorie di Meta nei confronti dei contenuti palestinesi costituiscono una chiara violazione degli standard internazionali per la libertà di espressione". I giornalisti, gli influencer e le organizzazioni mediatiche palestinesi "hanno dovuto affrontare gravi restrizioni che hanno limitato la portata dei loro contenuti e hanno influito sulla loro capacità di condividere informazioni vitali, organizzarsi o difendere i propri diritti".

Secondo una recente inchiesta di Drop Site News, il governo israeliano avrebbe orchestrato “una vasta repressione dei post su Instagram e Facebook critici verso Israele o anche solo vagamente solidali con i palestinesi”. Secondo i dati raccolti dal media indipendente, Meta avrebbe accolto il 94% delle richieste di rimozione presentate da Israele dal 7 ottobre 2023. “Israele è di gran lunga il principale promotore di richieste di rimozione a livello globale, e Meta ha seguito la sua linea, ampliando la rete di contenuti rimossi automaticamente e dando vita a quella che può essere definita la più grande operazione di censura di massa della storia contemporanea”, si legge nell’articolo.

Questi episodi, seppur diversi per contesto e intensità, rivelano un quadro preoccupante: la libertà di espressione, quando riguarda la solidarietà verso la causa palestinese, appare sempre più soggetta a limitazioni, pressioni e censure, sia nei luoghi pubblici che negli spazi digitali. Ed è inquietante constatare come espressioni pacifiche di dissenso vengano spesso trattate alla stregua di minacce.

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