Intervista a Mauro Berruto: “Perché escludere gli atleti israeliani dalle competizioni internazionali”

L'ex ct della nazionale maschile di pallavolo
«Ci sono alcuni “casi scuola” molto chiari: l’ex-Jugoslavia e ancor di più il Sudafrica, escluso dai Giochi Olimpici dal 1964 al 1988 per l’apartheid. Chi dice che lo sport deve stare fuori dalla politica (e viceversa) sa di dire una sciocchezza»

Parla da politico, ma prim’ancora da uomo di sport Mauro Berruto, già commissario tecnico della nazionale maschile di pallavolo, poi direttore della nazionale di tiro con l’arco, solo per citare alcuni dei più importanti incarichi ricoperti in una lunga esperienza sportiva.
Da parlamentare e dirigente politico, membro della Direzione nazionale del Partito democratico, con un importante trascorso sportivo alle spalle, è stato promotore di una iniziativa per escludere gli atleti israeliani dalle competizioni internazionali. Una scelta dal grande valore simbolico che ha suscitato polemiche. A fronte di una lista innumerevole di Paesi esclusi dal 1948 ad oggi dal Comitato Olimpico Internazionale, dalla FIFA e dalla UEFA per ragioni del tutto simmetriche a quelle a cui stiamo assistendo, su Israele nessuno degli organismi sportivi citati si è neppure posto la domanda. Ci sono alcuni “casi scuola” molto chiari: l’ex-Jugoslavia e ancor di più il Sudafrica escluso dai Giochi Olimpici dal 1964 al 1988 per l’apartheid. Negli anni in cui Nelson Mandela era in carcere, il ban sportivo fu uno degli strumenti di pressione internazionale. Quando Mandela venne finalmente liberato, lo sport, in quel momento sì, diventò strumento di conciliazione: tutti conoscono la storia del mondiale di rugby del 1995, raccontata nel film Invictus. Perché gli organismi sportivi internazionali usano una delle funzioni dello sport, che è quella sanzionatoria, solo in alcuni casi? Riguardo a polemiche e accuse di antisemitismo sono infamie, non ci casco.
Il politically correct vorrebbe che lo sport fosse un mondo a parte, senza “invasioni politiche”. Sappiamo che così non è mai stato. Ma quando si parla d’Israele scatta un riflesso pavloviano. Chi dice che lo sport deve stare fuori dalla politica (e viceversa) sa di dire una sciocchezza. Non è mai stato così, fin dalla Grecia antica. Già 2800 anni fa, gli atleti gareggiavano a Olimpia rappresentando la propria “polis” (radice stessa della parola “politica”), diventavano esempio per la propria comunità che li premiava con quello che oggi chiameremmo un “vitalizio”: casa, pasti gratuiti e, spesso, proprio con ruoli politici o militari. Chiunque conosca la storia dello sport in modo non superficiale sa anche che lo sport non è mai riuscito a fermare le guerre. Nessuna guerra si è mai interrotta in una società che viveva in una strutturale condizione belligerante, tanto meno quella del Peloponneso. La spesso citata “tregua olimpica” non era altro che un lasciapassare che permetteva ad atleti e spettatori di giungere incolumi ad Olimpia, che diventava così luogo di diplomazia. Lo sport non fermava le guerre, ma le guerre non fermavano lo sport. Nel solo Novecento, invece, la guerra ha fermato i Giochi Olimpici per tre volte, nel 1916, nel 1940 e nel 1944. E alla ripresa, ai Giochi di Londra 1948, Germania e Giappone furono bannate dalla partecipazione proprio per i crimini commessi durante la II Guerra mondiale. Sarei il primo ad essere felice se lo sport esercitasse di nuovo il suo potere diplomatico, ma allora dovrebbe succedere in tutti i casi senza eccezioni.
Infatti il CIO sanziona la Russia in campo sportivo, come l’Europa lo fa attraverso l’economia, ma non muove foglia su Israele. Due pesi, due misure? Nel caso della Russia, che violò la tregua olimpica ai Giochi Olimpici invernali di Pechino 2022 con l’aggressione all’Ucraina, la decisione, giustissima, fu immediata. E invece per Israele siamo ancora qui ad attendere, dopo quasi due anni di sterminio, di distruzione di tutto (e conseguentemente anche dello sport e delle sue infrastrutture), di utilizzo della fame come metodo di guerra, dopo oltre 60.000 morti di cui 20.000 bambini e dopo le recenti decisioni relative alla Cisgiordania, con l’autorizzazione al nuovo insediamento E1 che di fatto certifica, se ancora ce ne fosse bisogno, uno stato di apartheid rispetto al popolo palestinese. La risposta è: certamente sì, si tratta senza alcun dubbio di doppia morale. Tra gli oltre 62mila palestinesi uccisi a Gaza, stima probabilmente in difetto, c’è anche Suleiman Obeid, aveva 41 anni ed era uno dei calciatori più famosi della Striscia di Gaza e della Cisgiordania. Era considerato il “Pelè palestinese”. Sono ormai quasi 700 gli sportivi uccisi dall’inizio di questa tragedia e il 90% delle infrastrutture sportive a Gaza sono state rase al suolo. È morto anche, a causa delle impossibilità di curare la propria patologia ai reni, Majeed Abu Maraheel, primo portabandiera palestinese ai Giochi Olimpici di Atlanta 1996. Suleiman Obeid, il “Pelè palestinese”, è stato ucciso in attesa di un sacco di farina in un punto di distribuzione di alimenti. Non credo alla casualità, tutti i casi citati non sono “effetti collaterali”. Sono piuttosto la dimostrazione di una chiara volontà politica. Chi vuole cancellare un popolo tenta di annientare in modo mirato ciò che tiene insieme le passioni di quel popolo. E lo sport ha quel ruolo. Così uccidere gli sportivi (o i musicisti, i poeti, gli attori, i giornalisti) significa distruggere lo spirito di un popolo, ciò che anche nella tragedia può tenerlo unito. Il Comitato Olimpico palestinese ha dichiarato che, quando il conflitto finirà, non sarà immaginabile per almeno dieci anni prevedere alcuna ripresa dell’attività sportiva nella Striscia di Gaza.
Il 14 ottobre, a Udine, ci sarà una partita valida per la qualificazione al mondiale di calcio: Italia-Israele. Che cosa dovremmo o potremmo fare? E prima, l’8 settembre, sul campo neutro di Debrecen in Ungheria, ci sarà l’andata. Il calcio ha un impatto mediatico molto più forte di tanti altri sport, ma in questo caso il problema è più grande, riguarda lo sport in assoluto, non una singola disciplina. Per ciò che mi riguarda, il tema è identico che si parli di pallavolo, pallacanestro o quant’altro. Ogni squadra nazionale rappresenta il suo Paese, lo dico a ragion veduta, avendo allenato squadre nazionali (prima la Finlandia, poi l’Italia) per 11 anni. Potremmo aprire una discussione su atlete e atleti di sport individuali che non hanno sostenuto le politiche di Netanyahu, proprio come succede ora con i singoli atleti russi. Certo bannare qualche atleta che si è espresso contro la guerra sarebbe un errore (nel tennis ricordo il caso Rublev, uno dei pochi che si espresse esplicitamente a favore della pace in Ucraina). Il problema è che lo sport israeliano è uno dei più “militarizzati” al mondo e voci di dissenso, almeno personalmente, non ne ho proprio sentite. Resta il fatto che anche il CIO non ha dubbi per gli sport di squadra, come il calcio, e sottolineo che le scelte di esclusione non sono emozionali, ma sono riferite a specifici articoli della Carta Olimpica e degli statuti di FIFA e UEFA che sono inequivocabili. La decisione di non giocare la partita di Udine non compete alla FIGC, però mi chiedo: che tipo di segnale vorrà dare il nostro Paese? Voltiamo lo sguardo?
Pensa a un’azione simbolica come le famose “magliette rosse” di Adriano Panatta e Paolo Bertolucci nella finale di Coppa Davis 1976 nel Cile di Pinochet? Perché no? La storia dello sport è segnata da momenti simbolici potentissimi: penso all’immagine del podio olimpico di Città del Messico 1968, i pugni guantati di nero di Tommie Smith e John Carlos. Certo, quei due atleti hanno pagato un prezzo (anzi, perfino l’australiano Peter Norman venne sanzionato per aver semplicemente indossato una spilletta dell’Olympic Project for Uman Rights), ma quell’immagine ha segnato la storia. E un po’ ha contribuito a cambiarla. Ho apprezzato la presa di posizione coraggiosa dell’AIAC, l’Associazione italiana allenatori di calcio presieduta da Renzo Ulivieri, e mi chiedo: c’è qualche atleta, qualche sportivo, qualche protagonista “sul campo” che vuole far sentire la sua voce? Il Ministro Salvini ha risposto all’AIAC dicendo: “Gli allenatori pensino a fare gli allenatori”. Proprio lui, verrebbe da dire. In realtà, da uomo che ha dedicato 30 anni della sua vita allo sport, conosco bene quel tentativo strisciante di delegittimazione, quel “pensa a giocare”, come se gli sportivi fossero scimmiette ammaestrate o giullari di corte che devono produrre uno spettacolo, restando zitti e buoni. Dunque, mi rivolgo proprio a loro, agli atleti: fate sentire la vostra voce!
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha definito Benjamin Netanyahu un “eroe di guerra” e un “brav’uomo”. Ricordo che la Corte Penale Internazionale (che Italia ed Europa riconoscono pienamente) ha emesso mandati di arresto nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e dell’ex Ministro della Difesa Yoav Gallant per crimini di guerra e contro l’umanità. Non serve commentare oltre.
Il governo italiano continua a non voler riconoscere lo Stato palestinese. Se non ora, quando? Di fronte a ciò che ormai è chiaro agli occhi di tutto il mondo – perfino, e finalmente, di Giorgia Meloni – Tajani e Crosetto si sono espressi con parole ferme, di condanna. Il punto è che delle parole non ce ne facciamo più niente, né noi né, soprattutto, la Palestina e il suo popolo martoriato. Dalle parole bisogna passare alle azioni e la prima di queste è il riconoscimento dello stato di Palestina. Poi ci sono gli strumenti economici, le sanzioni, gli embarghi. E fra queste azioni c’è anche il “ban” dalle competizioni sportive internazionali. Lo sport ha un aspetto nazionalpopolare che gli permette di essere uno strumento potente di comunicazione e una gigantesca lente di ingrandimento. Queste azioni devono poi essere messe a disposizione dell’opposizione interna, alla quale occorre infondere e chiedere coraggio, ma se tutto ciò che ho elencato non viene messo in atto dalla comunità internazionale, le parole si spegneranno di fronte a un fatto tragico e semplice: non esisterà più la Palestina. E nel caso di questo orrore, di questo buco nero della storia, saremmo tutti responsabili: attori e spettatori.
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