Roberto Speziale: «Disabilità intellettive complesse: ancora troppi i minori esclusi dai servizi»

«Il modello Trieste sulle disabilità, e più in generale quello del Friuli Venezia Giulia, andrebbe preso ad esempio in tutta l’Italia come buona pratica di riferimento». Lo sostiene Roberto Speziale, presidente dell’Associazione nazionale di famiglie e persone con disabilità intellettive e disturbi del neurosviluppo – Anffas. Il riferimento non è casuale: l’Anffas nel week end ha svolto i lavori dell’assemblea nazionale proprio nel capoluogo giuliano. Speziale (nella foto qui sotto durante il suo intervento a Trieste) traccia un bilancio dei lavori.

Presidente, il vostro è stato un appuntamento decisamente partecipato.
Sì, abbiamo contato oltre 400 presenze tra coloro che hanno potuto arrivare di persona e quanti ci hanno seguito a distanza, in streaming. In più, abbiamo avuto il piacere di registrare presenze istituzionali di grande profilo: il ministro per le Disabilità, Alessandra Locatelli, si è intrattenuto con noi per quasi due giorni e ha voluto toccare con mano l’entità delle nostre istanze e delle proposte migliorative di quanto di buono è stato fatto negli ultimi tempi. Inoltre, erano presenti anche l’assessore regionale alla Salute, politiche sociali e disabilità, Riccardo Riccardi, e alcuni esponenti della Giunta comunale di Trieste. Ne è venuto fuori uno spaccato molto interessante delle politiche sociosanitarie di quel territorio, che posiziona quella regione a livelli d’avanguardia: non a caso, tempo fa si sono dotati di una legge che promuove l’integrazione sociosanitaria e riconosce al Terzo settore un ruolo di raccordo.
Avete parlato della riforma della disabilità, attuata con il decreto legislativo n. 62/2024.
Sì, è stata una buona occasione per fare il punto insieme al ministro Locatelli. In alcune realtà d’Italia, dove ci sono istituzioni forti e un Terzo settore altrettanto propositivo, si riesce ad attivare processi virtuosi. Questo ci fa dire che, laddove non riscontriamo analoghe performance, è evidente perché non si creano le condizioni favorevoli: non c’è un problema normativo o di risorse, che spesso vengono prese a motivo di ritardi e inefficienze. È soltanto un tema di infrastrutturazione e attivazione di percorsi virtuosi che vedano il Terzo settore, quale soggetto sussidiario costituzionalmente garantito, insieme alle istituzioni pubbliche che hanno interesse a fare politiche attive per dare risposte ai temi sociali e sociosanitari.
Che cosa ha chiesto l’Anffas al ministro Locatelli?
Sono stati i nostri associati, cioè le persone con disabilità intellettive, a farle il quadro della situazione, a illustrarle i problemi più evidenti, a chiederle maggiori spazi di inclusione sociale e lavorativa. Ancora una volta è tornato prepotentemente il tema del progetto di vita personalizzato e partecipato, che è lo strumento principe per garantire dignità, diritti e qualità di vita delle persone con disabilità. Proprio queste ultime, hanno fatto un dono speciale al ministro: una copia in linguaggio “easy to read” (testualmente, “facile da leggere”) della Carta di Solfagnano, il documento firmato dai ministri dei Paesi che hanno partecipato al G7 Inclusione e disabilità, svoltosi in Umbria nel 2024. Si tratta di una solenne dichiarazione che impegna i sette grandi del pianeta a sostenere la cultura e i diritti. È un messaggio altamente simbolico: l’easy to read, certificato a livello europeo, consente alle persone con disabilità intellettive di avere strumenti di più facile comprensione dei testi, attraverso la comunicazione aumentativa e alternativa. Un lavoro assolutamente futuristico, il quale attua quel principio della Convenzione dell’Onu che è l’accessibilità universale.
Il ministro ha gradito il pensiero?
Sì, al punto che ci ha chiesto se sia possibile fare un analogo dono anche agli altri componenti del governo: una sorta di plus per un avanzamento culturale, qualcosa di innovativo che non si riceve tutti i giorni.

Quali richieste sono emerse in questi due giorni?
I nostri associati hanno chiesto espressamente al ministro di prestare molta attenzione e dare priorità alle disabilità più complesse, cioè a coloro che sono invisibili. Oggi si tende a far emergere la visione eroica della disabilità: le persone che ce la fanno, le famiglie che ce la fanno, il campione paralimpico, i casi positivi. Ma tutte quelle realtà ad altissima complessità, come le persone con gravi problemi comportamentali, creano una pressione che spesso è insostenibile da parte della famiglie e, nella maggior parte dei casi, ricade sulle spalle delle donne. In Italia contiamo 1,8 milioni di persone con disabilità. Ovviamente, non sono tutte ad alta complessità; tuttavia, un buon 30% di questa platea rientra nel solco dello spettro autistico a basso funzionamento e porta con sé una serie di problemi molto seri, come una accentuata aggressività. Queste persone, che spesso vengono escluse dalla scuola e da altre opportunità, non trovano dignità e neppure spazio nei canali di informazione. I cittadini, e mi ci metto pure io da genitore perché non è giusto puntare il dito, molto spesso preferiscono non sentire e non vedere. Ecco, in molti prevale un senso di abbandono, di tristezza, di solitudine.
Che cosa potrebbe fare la politica?
Ci vogliono più risorse. Lo so, è una richiesta che fanno praticamente tutti i settori, ma in questo caso si tratta di garantire sostegni di grande qualità ed elevata intensità. Le faccio un esempio: se in una classe c’è un bambino con gravi problemi comportamentali, in genere si porta quel bambino fuori dall’aula, magari in uno sgabuzzino. Questo avviene quando in un contesto scolastico non ci sono figure adeguatamente preparate e formate, che magari conoscono la tecnica Aba (Analisi del comportamento applicata, ndr) e sanno gestire i casi complessi e i momenti di crisi. Se un bambino mostra un determinato comportamento, non lo si può etichettare semplicemente come un ribelle: sta manifestando un disagio. E comunica al mondo, che non lo comprende, con gli unici strumenti di cui dispone. Adeguate professionalità sono indispensabili ma hanno un costo.
È un discorso che può essere allargato ad altri contesti.
Non c’è dubbio. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a un moltiplicarsi di una serie di episodi violenti e di abusi, soprattutto ai danni di donne e persone anziane. Se non ci sono professionisti in grado di occuparsi di persone non autosufficienti o con disabilità ad alta complessità, non è possibile gestire quei casi. Mi chiedo: siamo sicuri che tutti gli operatori delle strutture siano adeguatamente formati e abbiano il necessario profilo psicologico adatto a svolgere mansioni così gravose? La nostra preoccupazione è crescente perché assistiamo a una continua destrutturazione dei servizi. Oggi abbiamo una lunghissima lista d’attesa di bambini e ragazzi con gravissime disabilità che non riescono ad accedere ai servizi pubblici, come i centri semiresidenziali che possano accoglierli dopo le attività a scuola. E tocca alle famiglie provvedere, nel frattempo, investendo migliaia di euro al mese. Ma non tutti possono permetterselo.
La pubblica amministrazione è indietro rispetto alle stesse normative di settore.
Il rischio è che le famiglie vadano a cadere nelle mani di persone che ne approfittano sotto il profilo economico. Insomma, non siamo intervenuti prima, siamo costretti a recuperare ma intanto le famiglie scoppiano. Il più delle volte fuoriesce la figura paterna e il peso grava sulle spalle della mamma. Il ministro ha mostrato grande disponibilità e comprensione del tema, ma siamo consapevoli che questo è un momento difficile per reperire risorse finanziarie. È un tempo in cui, piuttosto che promuovere la pace disarmata, stiamo promuovendo la pace armata. È inutile che ci vengano a dire che il sociale non si taglierà: il sociale è già tagliato. Se anche non si facessero nuovi investimenti, sarà proprio il settore sociale a pagare il prezzo più grande.
L’Italia si occupa di questo ambito con modalità completamente differenti da territorio a territorio.
Guardo alle eccellenze, come la Lombardia e l’Emilia Romagna, ma anche il già citato Friuli Venezia Giulia. Non è che quei modelli non siamo migliorabili, però sono buone prassi da prendere a riferimento: c’è la corretta relazione partecipativa e collaborativa tra le istituzioni e il Terzo settore. Se vogliamo che il nostro Paese evolva, dal punto di vista delle politiche sociali e del welfare, la pubblica amministrazione e le realtà del Terzo settore devono evolvere in una modalità più osmotica e sinergica, di corresponsabilità del fine. Poi ci sono regioni come la Sardegna, che mostra elementi di grande positività ma non ha ancora compiuto quel salto che consenta di uscire dal modello troppo sanitario per arrivare a quello più psicosociale, possibilmente aumentando la collaborazione con il Terzo settore. Purtroppo, ci sono altre regioni che sono molto indietro. Gli ultimi dati sono chiarissimi e disarmanti: in Calabria la spesa sociale è di 24 euro pro capite, mentre in Valle d’Aosta è di 386 euro. I risultati qualcosa ci dicono. Sempre.
La riforma del Terzo settore ha introdotto alcune novità importanti, come il Codice di qualità e autocontrollo. A che punto è Anffas?
La nostra rete ha espresso una linea guida. Ieri l’assemblea ha approvato quello che credo sia il primo Codice di qualità oggi presente tra le reti associative in Italia. Ci siamo dotati di uno strumento di orientamento etico, valoriale e comportamentale che ci consente di migliorare attraverso l’autoanalisi. È un lavoro di democrazia partecipata che ha coinvolto la nostra base per tre anni, con periodi di formazione e raccolta dati. L’investimento più grande del Terzo settore oggi è la sua reputazione, che va dimostrata e non autodichiarata, con elementi di accountability e rendicontazione sociale utili per avere la lettura di ciò che facciamo e l’impatto sociale che produciamo.
In che cosa può e deve migliorare l’Anffas?
L’assemblea ha approvato un documento che guarda alla prossima trasformazione della nostra Associazione. Ci siamo dati 4-5 anni di tempo sino al 2030 per ristrutturare complessivamente tutta la nostra rete e riorganizzarci, valorizzando i punti di forza e analizzando le criticità attraverso uno specifico piano d’azione. In 67 anni, un po’ di ruggine si è inevitabilmente accumulata: dobbiamo entrare in officina e fare una messa a punto, per cogliere e possibilmente anticipare la complessità sociale. Dobbiamo rilanciare la partecipazione sociale e reinterpretare la nostra funzione per essere un soggetto adeguato allo svolgimento di un’attività di interesse generale e di perseguimento del bene comune, promotore di coesione sociale, solidarietà e pace positiva. Sposiamo sino in fondo le parole del Papa: vogliamo una pace disarmata e disarmante.
Foto apertura PexelsDi seguito, il Codice di qualità e autocontrollo approvato dall’Anffas.
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