Venezia volti pagina: i beni collettivi valgono molto di più del turismo mordi e fuggi

Il dossier “Venezia, non più Serenissima” descrive una città che ha smarrito la propria traiettoria di sviluppo e che rischia di perdere definitivamente anche il rapporto con i suoi abitanti (anzi, proprio gli abitanti stessi).
Il problema non è solo l’overtourism, ma un cortocircuito sistemico: scuole che chiudono, servizi sanitari che arretrano, case inaccessibili, opportunità di lavoro concentrate in poche professioni a bassa qualificazione, quasi tutte legate al turismo. In questo senso la città si trova in condizioni simili a quelle di tante aree interne. Un paradosso duro da comprendere ed accettare. Ma prima lo facciamo, meglio è.

Venezia ha progressivamente perso le sue basi produttive e manifatturiere, senza consolidare nuove traiettorie di sviluppo. Il risultato, almeno in apparenza, è una monocultura turistica estrattiva che rischia di soffocare quei barlumi di speranza che si generano attorno alle economie della conoscenza, della creatività e della cultura.
Il risultato è una città che non riesce più a trattenere i suoi cittadini, soprattutto i giovani nella fascia 25-35 anni – il segmento demografico che più contribuisce alla crescita di lungo periodo. Sono loro i grandi assenti, espulsi da prezzi insostenibili e da un mercato del lavoro povero di prospettive.
Così, la città più iconica del mondo si svuota. Alessia Zabatino ed Elena Ostanel ci mostrano il rischio principale che Venezia corre: trasformarsi in una destinazione. E basta. Un destino che non è inevitabile, se si torna a investire in settori capaci di generare lavoro qualificato e si programmano investimenti in spazi e servizi capaci di ridurre le disuguaglianze e ridurre le pressioni generate dai mercati, demercificando.

Venezia stessa non deve essere guardata solo entro i suoi confini amministrativi. Può e deve funzionare come centro propulsivo di una rete più ampia del Nord Est, un territorio che possiede università, imprese manifatturiere, centri di ricerca e istituzioni culturali in grado di collegare la città a catene globali del valore ad alta intensità di conoscenza.
Non si tratta di inventare da zero una nuova vocazione, ma di connettere e valorizzare ciò che già esiste: l’artigianato di alta qualità, l’economia del mare, l’innovazione ambientale, la cultura digitale. Mettendo a fuoco il fatto che lo sviluppo urbano non è mai solo il risultato di mercato e istituzioni. Dipende dall’azione collettiva: da quanto istituzioni, imprese e società civile riescono a cooperare per costruire beni collettivi per la comunità.
In questo senso, il dossier porta un contributo importante: la mappatura delle reti di attivismo che già oggi si battono per casa, salute, scuola, ambiente. Sono loro il punto di partenza per una nuova fase di Venezia: spazi di proposta e comunità che resistono e che possono diventare i nodi di una governance inclusiva.
La domanda chiave resta: quali condizioni possono convincere un giovane tra i 25 e i 35 anni a restare o scegliere Venezia per costruire il proprio progetto di vita? Casa accessibile, lavoro qualificato, servizi di qualità, spazi culturali e comunitari.
Sappiamo che non è solo un problema economico, ma anche una questione sociale e relazionale. I più giovani cercano contesti in cui sentirsi parte attiva, non semplici utenti o spettatori.
Per riuscirci serve una doppia azione: da un lato, sostenere la riscossa dal basso delle reti già mappate da VITA; dall’altro, un investimento straordinario nazionale e regionale in infrastrutture collettive e servizi perché nessuna città può affrontare da sola una sfida di queste dimensioni.
Venezia può tornare a essere una città generativa: capace di produrre valore per chi la abita, di stimolare scambi tra Oriente e Occidente e di offrire un futuro a chi la sceglie, non solo per un weekend.
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In apertura, fotografia di Rebe Adelaida su Unsplash
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